Testo: Adone Bettega | Foto: Adone Bettega, Maurizio Dell’Antonio, Bepi Pellegrinon e Edoardo Zagonel - Guida Alpina
Come noto (vedi articolo su Aquile N° 2), l’intervento militare del regno d’Italia aveva costretto lo S.M. austro-ungarico ad ordinare l’abbandono del Distretto di Primiero. Il piano, programmato da tempo, aveva imposto alle poche truppe a disposizione lo schieramento lungo la catena porfirica del Lagorai ( Fassaner Alpen). Manovra di ripiegamento avvenuta senza particolari difficoltà data l’inconsistente pressione delle unità italiane che nei primi giorni del conflitto si accontentarono di impadronirsi solamente dei paesi di fondovalle e di alcuni monti prossimi al confine di stato. In tale contesto il centro turistico di San Martino di Castrozza fu dato alle fiamme da manipoli asburgici liberi di muoversi in un terreno perfettamente noto ma che nei mesi successivi divenne il teatro di una fitta attività di pattuglie italiane ed austriache, protagoniste anche di qualche sporadico conflitto a fuoco.
Il 22 ottobre 1915, degna di nota, l’occupazione definitiva del monte Castellazzo da parte di una pattuglia (22 uomini) del 49° reggimento della fanteria italiana, al comando del s.ten. Montrucchio che, partita all’alba da passo Valles, riuscì a sopraffare, nonostante una spessa coltre nevosa, il presidio della 55^ Gebirgsbrigade. Protagonista di tale azione un soldato calabrese, Pasquale De Maria che, secondo il testo dell’onorificenza a lui attribuita (medaglia di bronzo al V.M), “(…) da solo faceva arrendere un posto austriaco composto da dieci soldati. ” Colpo di mano che permise alle regie truppe di consolidarsi su una posizione assai panoramica e posta a dominio della testata di val Travignolo e del sottostante passo Rolle, successivamente abbandonato dalla modesta guarnigione asburgica, ritiratasi in tutta fretta sulla Cavallazza. In Vanoi, il paese di Caoria rimasto isolato fra le rispettive linee difensive, aveva nel frattempo (novembre 1915) subito la totale evacuazione dei civili, trasferiti dal comando italiano a Canal San Bovo e successivamente in alcune regioni del regno. Iniziativa quest’ultima suggerita dalla programmata offensiva della 15^ divisione italiana contro il Lagorai centrale (Montalon e Valpiana) e alla quale avrebbero dovuto dare il proprio contributo, per la verità molto modesto vista l’esiguità delle forze a disposizione, anche le unità del cosiddetto “ Sottosettore Valles”, se l’inverno ormai alle porte non avesse avuto la meglio sulle aspirazione dello S.M. di Cadorna.
Le tragiche valanghe del marzo 1916.
Le prime nevicate autunnali sorpresero i soldati di entrambi gli schieramenti asserragliati in alta montagna e li costrinse a fermarsi sulle posizioni raggiunte nel corso del 1915. Con l’arrivo dell’inverno ben altri furono i problemi a cui i comandi furono chiamati a dar risposta. Mai, prima di allora, degli uomini in armi si trovarono a dover combattere in un ambiente così ostile. Alla normale attività militare, si sommarono il freddo pungente, la neve, il vento gelido e l’insidia delle valanghe. L’inesperienza fu causa di situazioni molto drammatiche e a pagarne lo scotto più elevato furono principalmente le unità di fanteria, i cui effettivi provenivano in gran parte dalle pianure. Ebbe così inizio un infaticabile lavoro di costruzione di ripari isolati, dotati di stufe e pertanto idonei a difendere i soldati esposti alle intemperie. L’utilizzo di legna da ardere si aggiunse al normale fabbisogno edilizio di legname e nell’insieme si ebbe un ulteriore danno al patrimonio boschivo delle comunità locali. I militari asburgici, trincerati sulle cime più alte del Lagorai iniziarono a soffrire per il maltempo già all’inizio di novembre. I diari narrano di abbondanti nevicate e temperature che raggiunsero i -18° con ripetuti casi di congelamento in uomini costretti a vigilare all’esterno o a riposare in rifugi inadeguati. In alcune circostanze i comandi di settore furono addirittura obbligati a disporre l’abbandono di siti esposti (monte Cauriol) all’impeto della bufera od eccessivamente isolati. Il pericolo maggiore per i soldati costretti a vivere in alta montagna o a muoversi su tracciati lungo ripidi pendii, fu tuttavia la valanga. Non essendoci in quel periodo mezzi in grado di valutare il rischio, il più delle volte ci si affidava all’esperienza che ciascuno aveva in materia. Malgrado ciò, condizionato dalla conformazione del terreno e da più ampi ed articolati elementi, il distacco della valanga era quasi sempre imprevedibile.
L’assenza di preparazione tecnica ed alpinistica, principalmente rilevabile negli ufficiali di fanteria, fu determinante nel causare enormi perdite fra le unità combattenti, spesso acquartierate in luoghi celati alla vista dell’avversario, ma esposti all’insidia della valanga. L’inevitabile stasi causata dall’inverno spinse il C.S. italiano a ridurre ulteriormente le proprie forze con il trasferimento, il 28 gennaio 1916, della brigata Abruzzi sul fronte giulio. Al 2° bersaglieri (ten.col. De Negri), fu pertanto affidato l’incarico di presidiare Primiero, disponendosi sulla linea: Calaita – fondo val Cismon – monte Cimerlo. Al LXI battaglione bersaglieri fu invece assegnato il controllo della valle del Vanoi. Qui i fanti piumati al comando del maggiore Boinaghi, occuparono la linea: cima Mezzogiorno – Pralongo – Valsorda – cima Folga, con un plotone avanzato a Caoria, ormai abbandonata dai suoi abitanti e raggiunta pochi giorni prima dal XVIII battaglione della regia guardia di finanza e da una compagnia del 58° fanteria.
Sui monti Vederna e Totoga il genio proseguì l’imponente lavoro di perforazione delle gallerie per il posizionamento di alcune batterie di medio e piccolo calibro, estratte dalle fortificazioni di confine ormai dismesse. Artiglierie trainate in loco dopo la costruzione di lunghe ed ardite carrarecce che ancora oggi si inerpicano fra strapiombanti pareti rocciose. Sul crinale boscoso che separa la valle di Primiero dalla valle del Lozen i soldati del regio esercito predisposero una linea di trinceramenti e camminamenti che sul Col Santo e a forcella Calaita raggiunsero una concentrazione ragguardevole. Su queste ultime alture furono inoltre posizionate alcune batterie contraeree per contrastare il frequente sorvolo di velivoli dell’aviazione austro-ungarica. Importanti opere campali videro la luce in quel periodo anche a Pralongo, in Vanoi e sul Col dei Cistri. Delle vicende che, seppur in un ambito di relativa tranquillità bellica, condizionarono la vita della popolazione civile rimasta in valle, sono testimoni e diaristi autorevoli il già noto don Enrico Cipriani, vice parroco a Mezzano (Aquile 2015) ed Enrico Koch, ex impiegato delle imposte e per due volte podestà di Fiera di Primiero. Entrambi, pur in possesso di una visione limitata dei fatti a causa dell’obbligo di soggiornare nei propri ambiti comunali, furono osservatori attenti e perspicaci annotando le notizie che giungevano loro dagli ufficiali italiani, dai soldati, dalle semplici chiacchiere della gente impaurita ed incerta sul proprio futuro o dai fatti che quotidianamente avvenivano nei piccoli paesi della valle. Pur confusi o parzialmente imprecisi, gli avvenimenti raccontati da don Cipriani e Koch, confrontati con la cosiddetta documentazione ufficiale, contribuiscono a fornire un quadro abbastanza puntuale degli eventi.
Si tratta senza dubbio delle più importanti testimonianze giunte a noi e che descrivono il periodo bellico in Primiero giorno dopo giorno. Si ricavano notizie di particolare importanza come la partenza della brigata Abruzzi ed il conseguente riordinamento delle unità italiane rimaste in loco, ma anche il triste allontanamento di alcuni degli abitanti di Caoria, nell’autunno del 1915. Altro aspetto particolarmente importante e che compare negli scritti dei due diaristi, è il costante sospetto delle autorità italiane nei confronti di chiunque non si dimostrasse bendisposto nei confronti dei “liberatori”. Arresti, interrogatori ed allontanamenti di persone sospette erano infatti quasi all’ordine del giorno. Dolore ed incredulità emergono dalla notizia della grande valanga in val Male e che giunse pure in fondovalle, anche se agli occhi della gente comune apparvero solamente le colonne di soldati inviati in tutta fretta a soccorrere i malcapitati sepolti. L’incertezza sul numero dei morti rese quell’evento ancora più doloroso, si parlò infatti, almeno inizialmente, di più di centodieci fanti e bersaglieri uccisi.
La Strafexpedition. Nuove evacuazioni di civili.
Con l’arrivo della primavera il sospetto che qualcosa di importante stesse bollendo in pentola cominciò
a farsi strada nei comandi italiani. Il dubbio che l’esercito imperiale intendesse scatenare una grande offensiva in Trentino fu sempre più avvalorato dalle prove che quotidianamente il Servizio Informazioni della 1^ armata forniva allo S.M. Nel contesto complessivo della cosiddetta Strafexpedition, il settore di Primiero ebbe un ruolo del tutto marginale. Mentre in Valsugana e sugli altipiani infuriarono scontri violentissimi, nelle valli del Cismon, del Vanoi e del Biois, l’attività militare imperiale fu di semplice copertura con l’esecuzione di qualche sporadica azione di disturbo. Alla vigilia della grande offensiva lo schieramento austroungarico ad est di cima Stellune era
sostanzialmente immutato e costituito ancora dalla 55^ Gebirgsbrigade (G.M. Spielvogel) e dalla 179^ Infanteriebrigade (G.M. Edl. v. Schiessler). Luigi Cadorna, convintosi all’ultimo momento della minaccia, cercò di correre ai ripari inviando sul fronte minacciato truppe ed artiglierie provenienti dall’Isonzo. Nuovi contingenti andarono a rafforzare anche l’ala orientale della 1^ armata dove, alla metà di maggio, la 15^ divisione al comando del magg.gen. Negri di Lamporo, circoscrisse il proprio ambito operativo alla sola Valsugana, affidando alle unità già presenti in loco la difesa del “Sottosettore Cismon-Vanoi” (col. Durando).
A Primiero, nel frattempo, al 2° bersaglieri era subentrato un altro reggimento di fanti piumati: il 13°. In Val Biois le forze a disposizione della 4^ armata furono invece incrementate con l’inserimento della brigata Tevere (magg.gen. Pasquale), giunta a sostituire il 49° fanteria. Costituita da due reggimenti (215° e 216°), la nuova brigata fu schierata dalle cime di Costabella a passo Cereda. In particolare il neo costituito “Sottosettore Sud”, comprendente le Pale di San Martino, fu affidato al 216° reggimento (due battaglioni per un totale di circa 2.000 uomini più servizi e qualche pezzo d’artiglieria) che occupò la linea: Castellazzo q. 2267 Cimon della Pala – Rifugio Rosetta – Passo Pradidali – Forcella del Miel- Passo Canali – Passo Cereda.
Per la prima volta dall’inizio del conflitto il C.S. italiano sembrò attribuire particolare importanza ai valichi del gruppo dolomitico dominante l’alta valle del Cismon. Si trattava tuttavia di posizioni d’alta quota e ancora abbondantemente ammantate di neve, obiettivamente inadatte a fanti provenienti in gran parte da distretti del sud Italia ed inesperti di alta montagna. Incerto sui reali piani avversari, lo S.M. italiano si preoccupò di irrobustire il fronte negli ambiti ritenuti più vulnerabili, anche in completa assenza di segnali premonitori.
Le contromisure attuate furono tuttavia il frutto di un clima di grande confusione che con l’approssimarsi dell’offensiva andò man mano aumentando. Ne conseguì che spesso i rinforzi furono utilizzati male e gettati nella mischia della battaglia senza un piano ben preciso, quasi casualmente. Ciò determinò perdite enormi. Fra il fiume Adige ed il Brenta le divisioni di Cadorna corsero il rischio di essere completamente annientate e di permettere alle combattive truppe di Conrad di raggiungere la pianura. In Val Cismon e sui monti circostanti, della grande battaglia giunse solamente l’eco ma non mancarono i momenti di grande timore per le possibili conseguenze che l’avanzata asburgica avrebbe potuto causare.
Ne sono a cora una volta fedeli testimoni don Cipriani ed Enrico Koch che, dopo aver annotato la visita a Primiero del “generalissimo” Cadorna il 25 aprile, un mese dopo scrissero sui loro diari della terribile notizia apparsa sulle bacheche pubbliche di tutti i paesi della valle e cioè dell’ordine di sgombero dei civili decretato dalle autorità militari italiane. Tale disposizione, che risultò inappellabile per gli abitanti del comune di Canal San Bovo, ebbe una diversa applicazione a Primiero, dove ad abbandonare la propria casa furono solamente la popolazione di Fiera e di Siror. Per tutti gli altri l’ordinanza fu inizialmente sospesa ed il 10 giugno, in seguito all’arresto dell’offensiva imperial-regia, definitivamente abrogata. Le famiglie che tuttavia furono costrette a partire si ritrovarono disseminate in varie località dell’Italia centrale e meridionale. A fronte di una situazione alimentare favorevole, rispetto ai compaesani esiliati in Austria, questi profughi si trovarono a dover affrontare un clima completamente diverso e spesso condizioni igieniche deprecabili.
La maggior parte di essi poté rientrare in valle solamente alcuni mesi dopo e in fasi diverse, da agosto a settembre. Alla felicità per il ritorno in patria subentrò però l’amarezza nel ritrovare le proprie case depredate e danneggiate. Alle confische da parte dell’esercito italiano, più o meno legittimate, si aggiunsero furti e danni da parte di ignoti che contribuirono ad inasprire i sentimenti di rabbia in chi fu costretto ad abbandonare la propria dimora ed i terreni agricoli, ritrovati in autunno ormai improduttivi. Problema quest’ultimo al quale l’amministrazione militare cercò di dare una risposta fornendo il foraggio utile al nutrimento del bestiame sino all’anno successivo. Presso l’archivio comunale di Canal San Bovo sono depositate centinaia di richieste di risarcimento indirizzate alle autorità italiane. Ad ogni documento è allegato un inventario di beni sottratti o smarriti, nella maggior parte dei casi utensili domestici o attrezzi da lavoro, oggetti di poco valore ma indispensabili alla vita quotidiana delle famiglie di quell’epoca. Ad un secolo da quelli eventi non si è certi se tali istanze trovarono degno riscontro.
Estate 1916: le grandi offensive sul fronte del Lagorai.
Cercheremo di descrivere in questo paragrafo i fatti bellici che caratterizzarono alcune offensive della 4^ armata italiana sul fronte del Lagorai orientale. Si tenga presente che l’argomento è molto complesso e ampio e quindi l’esposizione degli eventi non potrà altro che essere sintetica. All’inizio di giugno, ormai ad un passo dalla pianura veneta, le divisioni imperiali e regie dovettero fermarsi ed iniziare un rapido ripiegamento strategico. Se la sconfitta militare fu scongiurata “per un soffio”, la tempesta causata dalla Strafexpedition obbligò, dopo aspri dibattiti in parlamento, il governo Salandra a dimettersi. Una crisi politica che tuttavia non riuscì a scalfire l’immagine granitica di Cadorna che, pur esposto a pesanti critiche, grazie alle truppe che “eroicamente” frenarono l’avversario alle porte della pianura, ottenne di rimanere al suo posto. In un clima nazionale di grande insicurezza, lo S.M. italiano impartì comunque le prime direttive per la controffensiva che secondo i piani avrebbe dovuto ricacciare l’avversario oltre il “sacro confine”, ampiamente violato. È in questo contesto che il C.S. inserì un progetto di avanzata oltre il Lagorai in direzione di Fiemme e Fassa. Già ipotizzata nell’autunno del 1915 e sospesa causa maltempo, l’operazione si proponeva questa volta di stringere d’assedio le unità asburgiche in fase di ripiegamento nel Trentino sud- orientale minacciandole alle spalle con una possibile penetrazione in valle dell’Adige a nord di Trento. Un piano estremamente ambizioso e che avrebbe potuto riservare interessanti sviluppi se eseguito con mezzi sufficienti e ben ripartiti: almeno due divisioni e relativa artiglieria, secondo il ten.gen. Di Robilant (comandante della 4^armata). Forze che tuttavia lo S.M. italiano in quel momento non era in grado di fornire. Alla metà di giugno, pertanto, si optò per un’azione molto più modesta e da eseguirsi con soli reparti già a disposizione della 4^ armata. Obiettivo principale lo sbarramento di Paneveggio con l’occupazione delle cime della Cavallazza, del Colbricon e di Bocche, il cui possesso era condizione imprescindibile per poter proseguire in val Travignolo, secondo le logiche militari dell’epoca. Il comando d’armata sviluppò dunque un azione cosiddetta “a tenaglia” basata su una duplice e contemporanea direttrice di attacco. La prima, proveniente da nord-est (val Biois), si sarebbe spinta contro le difese avversarie allestite fra l’importante caposaldo asburgico della Cavallazza e l’esteso plateau roccioso di cima Bocche.
La seconda, dall’alta val Cismon, avrebbe dovuto aggredire le eccezionali posizioni austro-ungariche di cima e forcella Ceremana, di cima e passo Colbricon ed infine gli apprestamenti difensivi edificati sul versante meridionale della Cavallazza. Contemporaneamente le unità a nord del passo di San Pellegrino avrebbero dovuto eseguire azioni dimostrative contro i bastioni rocciosi di Costabella. La responsabilità delle operazioni fu affidata al magg. gen. Marchetti, comandante del IX C.d.A. Il 12 luglio, in Primiero, con i reparti già appartenuti alla 1^ armata e con altre unità trasferite in loco dal fronte cadorino, fu costituito il Nucleo Ferrari, dal nome del suo comandante, magg.gen. Ferrari Giuseppe. La speciale unità tattica (sede di comando a Fiera di Primiero) all’atto della sua costituzione, disponeva di due reggimenti di fanteria (23° e 49°) e di un reggimento di bersaglieri (13°). Circa diecimila uomini più gli addetti ai servizi. Il parco d’assedio, in gran parte già presente nel settore ma collocato in posizioni arretrate rispetto alle nuove esigenze, subì un ulteriore rafforzamento, anche se le strade per poter trainare le nuove batterie erano ancora in gran parte da costruire. Contemporaneamente, la 17^ divisione di fanteria (magg.gen. Arvonio), alle cui dipendenze furono poste le brigate Tevere e Calabria, iniziò la sua dislocazione in alta val Biois. Creato l’esercito era ora compito dei comandi fornire allo stesso le condizioni per poter agire ma la situazione, soprattutto per quanto riguarda il Nucleo Ferrari, si presentò fin da subito tutt’altro che incoraggiante. In val Cismon la linea avanzata italiana era ancora quella raggiunta dalla 15^ divisione nel 1915, mediamente posta ad una decina di kilometri di distanza dalla linea di massima resistenza imperiale. Al comandante del Nucleo toccò quindi il dovere di cambiare, in tempi brevi, un assetto tattico estremamente sfavorevole. Per ottenere buoni risultati, tuttavia, era necessario che le operazioni di preparazione dell’offensiva avvenissero nella massima segretezza, ciò per non dar tempo all’avversario di prepararsi. Una prima rapida incursione verso il fronte asburgico avvenne il 24 giugno, quando il plotone esploratori del 13° bersaglieri, partito dagli avamposti di forcella Scanaiol, espugnò con facilità l’avamposto austriaco di cima Tognola (m 2405), creando le premesse per un ulteriore avanzata in direzione di cima Valcigolera (m 2540). Nelle ore notturne o giovandosi delle frequenti nebbie, il 6 luglio cominciarono i primi traini in quota delle batterie di medio calibro.
A Prati Ronzi furono posizionati 4 pezzi da 149G (426ª btr.) e 8 cannoni francesi da 120L; a forcella Calaita trovarono posto altri 4 pezzi francesi da 120L; in località Fratazza 4 obici da 210; a Villa Col (sud-est di San Martino) altri 4 obici da 210. Le artiglierie da campagna ed un gruppo someggiato, incaricate di accompagnare l’assalto delle fanterie, furono momentaneamente lasciate in fondo valle, occultate nei boschi o in luoghi di facile accessibilità. Nel frattempo, ostacolata da violenti temporali, iniziò la marcia di accostamento all’avversario da parte delle fanterie che nella notte del 4 luglio occuparono la linea: pendici sud-ovest del Cimon della Pala – costone fra val Fonda e rio della Pala – Colfosco – Fratazza cima Tognola – forcella Valzanchetta – cima Valcigolera (m 2540). Se il maltempo contribuì ad occultare, almeno parzialmente il movimento delle truppe sabaude, alcuni fulmini abbattutisi sulla Tognola e su cima Valcigolera causarono la morte di un bersagliere e il ferimento di altri soldati. All’inizio dell’estate del 1916, i principali capisaldi della difesa asburgica erano posti sul massiccio roccioso della Cavallazza (m 2324) e sull’ampio acrocoro di cima Bocche (m 2745). L’importanza strategica del cosiddetto Punto d’appoggio avanzato Cavallazza emerge dalla lettura di un promemoria del 1916 redatto dagli stessi comandi imperiali: “La zona avanzata del monte Cavallazza si trova a sud del passo Rolle e domina da ogni parte, tutto l’altipiano di Rolle, dall’altra tutto il Cismon e Fiera di Primiero. Impedisce un collegamento fra i due gruppi nemici: Passo Valles e Val Cismon.”
Altrettanto importante era la posizione denominata Bocchestellung, quota più elevata di un lungo crinale che funge da displuvio fra le valli di Travignolo e San Pellegrino. Ma i comandi I.R. davvero non si accorsero di avere a breve distanza ben due reggimenti pronti all’assalto? La risposta ci è fornita dalla stessa Relazione Ufficiale austriaca che in merito afferma: “La programmata offensiva italiana doveva sorprendere l’avversario, ma la preparazione non rimase nascosta al comando austro-ungarico. Il diverso comportamento del nemico, movimento di truppe, forte traffico veicolare sulla strada delle Dolomiti, la comparsa di nuove batterie e la crescente attività confermavano con chiarezza la notizia intercettata dai messaggi radio italiani.
4 Ciononostante, solamente quando il comando della 90^ Infanteriedivision fu sicuro dell’offensiva italiana, arrivarono alla spicciolata in val di Fiemme e Fassa le prime riserve, costituite da 24 bocche da fuoco, dal 23° Jägerbaon (collocatosi a protezione della Cavallazza e del passo Colbricon) e dal I/3° Landesschützen (dispostosi a Lusia), ai quali si affiancò il 19 luglio anche il battaglione ciclisti del magg.Schönner (in val Travignolo). Secondo i piani, l’attacco della brigata Tevere (col. Merzljak) contro cima Bocche doveva anticipare di 24 ore l’azione della brigata Calabria in Val Travignolo e del Nucleo Ferrari in alta val Cismon. Era infatti indispensabile che l’ala destra della 17^ divisione s’impadronisse di gran parte delle sommità dominanti i passi Valles e San Pellegrino, prima di spingersi in direzione di Paneveggio. All’alba del 20 luglio, un violentissimo temporale imperversava sull’intero settore. Fradici, infreddoliti e nel più assoluto silenzio i fanti della Tevere, da due giorni nascosti nella foresta del costone sud-orientale di Bocche, iniziarono l’assalto alla vetta. Appena usciti dal bosco, furono tuttavia accolti da un fitto fuoco di mitragliatrici e da numerosi colpi di schrapnel. La sorpresa era già svanita. L’ammassamento degli italiani era stato notato dalla guarnigione della Bocchestellung (Landsturmer del 39° battaglione) già il 18 luglio. Il giorno successivo erano iniziati ad affluire i primi rinforzi, dapprima costituiti da compagnie della riserva o del genio e successivamente dal prestigioso I/3° Landschützen e da battaglioni di fanteria (III/74°, II/92° e III/1° bh 5 ). Ininterrottamente nei giorni e nei mesi seguenti la Tevere tentò di proseguire, ma gli esiti dello scontro erano ormai decisi. Malgrado i sacrifici e le perdite rilevanti, ai fanti italiani riuscì solamente l’occupazione di posizioni più o meno prospicienti e sottostanti le trincee asburgiche. Aspri scontri si verificarono per tutta l’estate e l’autunno per il possesso di alcuni rilievi deputati a divenire tristemente famosi nei ricordi dei reduci. L’Osservatorio (Ausguck), il Montucolo nero (Finsterberg), l’avamposto Bhöm, le Pietre Neutrali (Neutraliche Steine) ed il Ferro di Cavallo.
La brigata Calabria (magg. gen. Mulazzani Arturo Benedetto) aveva completato il proprio schieramento verso la metà del mese di luglio, occultandosi in val Venegia e sulle pendici nordoccidentali del Castellazzo. Secondo i piani, l’attacco in val Travignolo doveva avvenire con forze rilevanti: quattro battaglioni (4000 uomini circa) suddivisi in due colonne. Alla vigilia dello scontro il contingente imperial-regio era costituito dagli Jäger del 23° battaglione al comando del capitano Binder, schierato fra la Cavallazza e Paneveggio, dai fanti della riserva ungherese del IV/37° e da alcune compagnie di Bersaglieri matricolati. Fra questi il battaglione di Rankweil, acquartierato presso il forte Dossaccio. Alla sera del 19 luglio, in loro soccorso, giunsero il battaglione ciclisti del magg. Schönner, che andò a dispiegarsi in fondovalle presso Paneveggio e nei giorni successivi ben quattro battaglioni di fanteria della 9^ Gebirgsbrigade (III/74°, IV/84°, IV/87° e
IV/12°), proveniente dal fronte del Pasubio. Il mattino del 21 luglio una forte scarica d’artiglieria si abbatté sulle posizioni imperiali comprese fra la Cavallazza, il Colbricon e l’alta val Travignolo. Rannicchiati nei propri ricoveri i fanti della 55^ Gebirgsbrigade trascorsero attimi terrificanti che lo Standschützen fiemmese Zorzi Giuseppe di Predazzo, a suo modo seppe così rappresentare: “ Il giorno 21 mattina e il primo giorno che le ò sentite vicine le canonate taliane al campiol della malga colbriccon, poi dopo mezzo giorno dietro un corozo onde le granate arivavano sopra il capo e alla sera abbiamo dovuto ritirarci alle buse d’oro che e stato perso la cavalassa e col bricon”. 6 Nella sua fase iniziale l’offensiva della brigata Calabria in alta val Travignolo non trovò nessun ostacolo rilevante e solamente in un secondo momento, ovvero quando le avanguardie italiane giunsero a stretto contatto con le riserve della 9^ Gebirgsbrigade, si ebbero scontri di una certa entità che tuttavia determinarono la fine della spinta offensiva della 4^ armata.
Seguendo un certo ordine cronologico, cerchiamo di descrivere brevemente i fatti che caratterizzarono quei giorni turbolenti. Il movimento della colonna di destra, composta dal 60° fant., aveva avuto inizio già durante la notte sul 21 luglio. Dopo aver percorso un lungo tratto occultato alla vista dell’avversario e guadato i rivi di Colbricon e di Valbona, il II/60° giunse a malga Colbricon dove catturò 46 Jäger in ripiegamento dalla Cavallazza o dal passo di Colbricon. Nottetempo, l’occupazione dell’area prospiciente la malga fu consolidata con l’arrivo di altre compagnie e dell’intero III/60° fant. Venivano così interrotte le comunicazioni fra il caposaldo della Cavallazza e le retrovie. Ottimi risultati ottenne pure l’avanzata della colonna di sinistra, iniziata alle ore 8,30 del mattino. Concorrendo all’azione del Nucleo
Ferrari, il I/59° assaliva alla baionetta alcuni apprestamenti imperialregi situati a nord-est dei laghi di Colbricon e catturava 67 Jäger, fra i quali 6 ufficiali e diverse armi automatiche e munizioni. Alle quattro del pomeriggio del 21 luglio le avanguardie del I/59° pervennero, percorrendo la foresta a nord del passo di Colbricon, nei pressi di quota 1821 e sul versante orientale di cima Stradon (m 2328). Alle ore 21 l’ala sinistra della brigata Calabria concludeva l’allineamento sulle posizioni avanzate comprese fra la malga Colbricon ed il passo omonimo, collegandosi a sinistra con il Nucleo Ferrari. L’intera operazione era costata alla brigata la morte di un solo uomo ed il ferimento di altri 45, fra i quali 5 ufficiali. Prova concreta che l’opposizione avversaria fu quasi assente. Nei giorni seguenti la resistenza delle unità della duplice monarchia si sarebbe fatta molto più tenace.
Al Nucleo Ferrari, lo si è già accennato, spettò il compito più difficile nell’organizzazione dell’attacco pianificato dal comando della 4^ armata. Gli obiettivi principali delle unità al comando dell’alto ufficiale ligure erano inizialmente rappresentate dal massiccio della Cavallazza – Tognazza e dal passo Colbricon, ritenuti non a torto gli anelli più deboli della catena difensiva imperiale e come noto, difese dal solo 23° Jägerbaon. Al tramonto del 19 luglio, il Nucleo Ferrari intraprese le manovre di approccio agli obiettivi stabiliti, anche qui ostacolate dal maltempo che già stava condizionando il movimento della 17^ divisione a nord del Rolle. Nonostante ciò, per il giornalista Barzini i fanti del Nucleo: “(…) a rrivarono così ad appiattirsi ad un centinaio di metri dal nemico, senza che nessun rumore, nessuna voce dessero l’allarme. Erano poco sotto alle prime difese, 7 a poche centinaia di metri dalla vetta”. Al giunger della prima luce del 21 luglio, le artiglierie italiane iniziarono a colpire le difese degli Jäger sulla Cavallazza e sul passo Colbricon. Quando alle 13.00, le fanterie italiane cominciarono la loro marcia in avanti, la resistenza avversaria fu praticamente nulla. I bersaglieri dei battaglioni LX e LIX, dopo aver percorso la val Boneta, valicarono di slancio le trincee semidistrutte del passo Colbricon e raggiunsero il soprastante pianoro. Poco dopo, l’occupazione si ampliò in direzione di malga Colbricon, a sud di cima Stradon e sul rovescio della Cavallazza. Verso sera, alcuni plotoni del LX/13° bers., dopo essersi inerpicati lungo il ripidissimo costone nord-est del Colbricon, riuscirono ad occuparne la cima orientale, dove catturarono alcuni soldati asburgici. Al contrario non fu coronata da successo l’azione di un plotone di bersaglieri (LXII/13° bers.) che aveva l’arduo incarico di raggiungere ed occupare l’impervia forcella Ceremana, difesa più dalle caratteristiche del terreno che dai soldati della 55^ Gebirgsbrigade.
Contemporaneamente era iniziata l’avanzata del III/49° lungo lo scosceso versante meridionale di cima Cavallazza e del plotone esploratori del I/49° che, dopo aver superato la Tognazza, giungeva sulla selletta situata a nord della Cavallazza Piccola (m 2310). Presso malga Rolle (m 1910), nel frattempo, nuclei avanzati del II/49° si collegarono senza particolari difficoltà con l’ala sinistra della brigata Calabria. La battaglia imperversò sulla Cavallazza per alcune ore ed il rumore delle esplosioni giunse sino in fondo valle. L’uso di alcune mitragliatrici, degli schrapnel ed il disperato tentativo di opporsi all’avanzata degli italiani, decisamente superiori in numero e potenza di fuoco, non ottenne successo e gli Jäger furono costretti a ripiegare. Alle due del pomeriggio la vetta e l’intera dorsale della Cavallazza erano in mano al 49° fanteria. A quella giornata, il noto disegnatore della Domenica del Corriere, Achille Beltrame, dedicò una sua opera di copertina raffigurante “l’atto eroico” del già noto fante calabrese Pasquale De Maria che, in occasione della espugnazione della Cavallazza, ebbe modo di mettersi in luce catturando da solo ben 69 soldati austro- ungarici. A sera, il Nucleo Ferrari estese la sua occupazione all’intero massiccio montuoso collegandosi con la 17^ divisione a malga Colbricon. Secondo i documenti ufficiali italiani, l’intera operazione era costata al Nucleo la morte di 12 bersaglieri ed il ferimento di altri 22, fra i quali un aspirante; agli austriaci erano stati catturati 233 uomini (fra i quali 6 ufficiali), 2 cannoni e alcune MG. Si esauriva così la prima fase dell’attacco italiano contro la porzione orientale del Lagorai e che permise alle unità del regio esercito, con poche perdite, di raggiungere la testata di val Travignolo.
Nei giorni successivi le cose sarebbero andate ben diversamente. Estremamente sintetico il commento della Relazione Ufficiale austriaca sui fatti: “(…) L’attacco italiano contro cima Bocche non ottenne risultati, essi avanzarono solamente in alta val Travignolo fino alle posizioni d’arresto, cedette la debole forza d’occupazione della Cavallazza (una compagnia e mezza, otto M.G., due vecchi cannoni) alle tre del pomeriggio, dopo due giorni di forte fuoco e sottoposta ad un ampio attacco da tre lati. Alla sera del primo giorno di attacco anche il passo Colbricon e la Quota Trigonometrica Colbricon erano in mano 8 agli italiani”.
In seguito all’evacuazione della Cavallazza e del Colbricon orientale quel che rimase dei Cacciatori del 23° battaglione si attestò frettolosamente su una linea il cui perno principale divenne la vetta occidentale del Colbricon. Da qui l’organizzazione difensiva asburgica trovò il terreno ideale sulla dorsale che, pervenendo al Piccolo Colbricon (m 2511), crea l’ampio valico di quota 2420, oggi noto con il toponimo di forcella di Colbricon, ma dai soldati austriaci denominata Grünen Sattel (Sella Verde). Dal Piccolo Colbricon, gli uomini del cap. Binder si distribuirono sull’esteso plateau roccioso che con cima Stradon (m 2328) e le Buse dell’Oro (m 2187), disegna un ampio triangolo il cui lato settentrionale digrada in val Travignolo. Tutto ciò in attesa dei rinforzi che ormai stavano sopraggiungendo. Conscio di questo, il comando del IX corpo italiano impartì quasi subito gli ordini per travolgere un avversario ancora debole e frastornato. Precedute dal fuoco dell’artiglieria, le operazioni iniziate già al mattino del 22 luglio proseguirono, a più riprese, sino alla fine del mese di luglio, ma la resistenza degli austro-ungarici, gradualmente più numerosi per l’arrivo delle già citate riserve, fu tale da scoraggiare ogni ulteriore aspirazione italiana. Soltanto in un paio di occasioni riuscì ai bersaglieri di porre piede per alcuni minuti su cima Stradon.
Contemporaneamente era iniziata l’avanzata del III/49° lungo lo scosceso versante meridionale di cima Cavallazza e del plotone esploratori del I/49° che, dopo aver superato la Tognazza, giungeva sulla selletta situata a nord della Cavallazza Piccola (m 2310). Presso malga Rolle (m 1910), nel frattempo, nuclei avanzati del II/49° si collegarono senza particolari difficoltà con l’ala sinistra della brigata Calabria. La battaglia imperversò sulla Cavallazza per alcune ore ed il rumore delle esplosioni giunse sino in fondo valle. L’uso di alcune mitragliatrici, degli schrapnel ed il disperato tentativo di opporsi all’avanzata degli italiani, decisamente superiori in numero e potenza di fuoco, non ottenne successo e gli Jäger furono costretti a ripiegare. Alle due del pomeriggio la vetta e l’intera dorsale della Cavallazza erano in mano al 49° fanteria. A quella giornata, il noto disegnatore della Domenica del Corriere, Achille Beltrame, dedicò una sua opera di copertina raffigurante “l’atto eroico” del già noto fante calabrese Pasquale De Maria che, in occasione della espugnazione della Cavallazza, ebbe modo di mettersi in luce catturando da solo ben 69 soldati austro- ungarici. A sera, il Nucleo Ferrari estese la sua occupazione all’intero massiccio montuoso collegandosi con la 17^ divisione a malga Colbricon. Secondo i documenti ufficiali italiani, l’intera operazione era costata al Nucleo la morte di 12 bersaglieri ed il ferimento di altri 22, fra i quali un aspirante; agli austriaci erano stati catturati 233 uomini (fra i quali 6 ufficiali), 2 cannoni e alcune MG. Si esauriva così la prima fase dell’attacco italiano contro la porzione orientale del Lagorai e che permise alle unità del regio esercito, con poche perdite, di raggiungere la testata di val Travignolo.
In entrambi i casi, tuttavia, essi furono sanguinosamente respinti e costretti ad attestarsi ad un centinaio di metri più in basso. F allirono anche tutti i tentativi di superare la Grünen Sattel, difesa dalle sopraggiunte unità dell’87° fanteria imperialregio. Le caratteristiche del terreno e la presenza di maggiori forze questa volta giocò a favore dei difensori e l’offensiva fu pertanto momentaneamente sospesa.
La consapevolezza di aver raggiunto un livello difensivo più che accettabile spinse tuttavia i l comando della neo costituita 57ª Infanteriedivision (FML Heinrich Goiginger) ad azzardare la riconquista del Colbricon, caduto in mano ai bersaglieri. Il tentativo, affidato alla 9^ Gebirgsbrigade che mise a disposizione un paio di compagnie composte da soldati sloveni (87° fant.), ungheresi e slovacchi (12° fant.), si svolse all’alba del 25 luglio lungo l’impegnativo pendio orientale del monte. Si sperava di sorprendere il presidio di vetta che tuttavia si dimostrò tutt’altro che disattento e al comparire dei primi assalitori, intervenne quasi subito con le proprie mitragliatrici e con il lancio di bombe a mano. Lo scontro, che proseguì per tutta la giornata, vide alcuni drappelli imperiali spingersi a ridosso delle abbozzate trincee italiane che comunque ressero l’urto. Nei mesi seguenti gli asburgici non ne tentarono più la riconquista. Italiani sulla vetta orientale ed austriaci sulla cima occidentale, ingaggiarono tuttavia uno scontro che in alcuni casi raggiunse contorni epici e che caratterizzò l’intero periodo bellico sino all’ottobre del 1917. In un contesto inedito di guerra in montagna, particolare spicco ebbe la conquista italiana, seppure temporanea, della cresta est di cima Ceremana. Si trattò di un’eccellente azione alpinistica, caratterizzata da una difficile scalata lungo una stretta fenditura strapiombante sui ghiaioni poco a nord di forcella Valcigolera e svolta da un manipolo del Nucleo Esploratori del LXII battaglione (13° bersaglieri.). Avvalendosi della fitta nebbia, la piccola unità era riuscita, il mattino del 20, ad arrampicarsi con l’ausilio di alcune corde, sino ad una strettissima spaccatura nella roccia a circa cinquanta metri a nord-ovest di cima Ceremana. Scoperti dai Landsturm di guardia alla Ceremana, i bersaglieri furono costretti a fermarsi e successivamente a ripiegare sostituiti da un plotone di fanti del 23° rgt. al comando del ten. Borghini prima e del s.ten. Marciano poi. Ma a nulla valsero gli sforzi delle regie truppe per mantenersi in quel nido d’aquila. Affamati, ormai senza munizioni e pressati dagli austriaci, anche i fanti furono costretti a ridiscendere a valle nel tardo pomeriggio del 27 luglio.
Ritenuti inutili ulteriori sforzi per avanzare in val Travignolo ed in vista dell’ennesima offensiva sull’Isonzo, il C.S. italiano decise di estendere la propria azione diversiva a sud-ovest e pertanto ordinò il 28 luglio 1916 il trasferimento del Nucleo Ferrari (meno il 13° bersaglieri) in valle del Vanoi. Fra l’agosto ed il novembre del 1916, la dorsale porfirica del Lagorai compresa fra il monte Cauriol e cima Cece, fu quindi teatro di altri violentissimi scontri fra varie unità alpine e alcune compagnie di Landesschützen (truppe da montagna imperial-regie). Il Cauriol cadde in mano italiana ed il Cardinal e la vicina Busa Alta divennero l’arena di una aspra contesa per il possesso di una vetta o di uno spuntone di roccia. Le truppe asburgiche furono più volte sul punto di cedere alla spinta offensiva degli italiani che tuttavia riuscirono, al prezzo di enormi sacrifici e di numerose perdite, ad attestarsi solamente a pochi metri dai capisaldi avversari.
Inutili e sanguinosi attacchi della 17^ divisione italiana. Colpi di mano sul Colbricon occidentale.
In vista dell’offensiva contro la testa di ponte di Gorizia nota anche come Sesta battaglia dell’Isonzo, il C.S. italiano dispose ai primi di agosto la ripresa delle cosiddette operazioni diversive anche sul fronte della 17^ divisione. Lo stesso Cadorna, per ingannare il Servizio Informazioni asburgico sulle sue reali intenzioni, visitò le linee italiane a passo Rolle e a passo San Pellegrino. La nuova fase avrebbe dovuto consentire alle brigate Tevere e Calabria, di raggiungere all’incirca gli stessi obiettivi già a suo tempo inutilmente perseguiti: cima Bocche e il Piccolo Colbricon. La nuova iniziativa era tuttavia attesa tant’è che alla vigilia dello scontro, lo schieramento imperiale subì un ulteriore rafforzamento . Come pianificato, il 4 agosto l’intero settore occupato dalla 9^ Gebirgsbrigade venne colpito dal tambureggiante fuoco delle artiglierie di medio calibro italiane. Gli scontri attorno alle conteseposizioni di cima Bocche, iniziati il 4 agosto e proseguiti sino alla sera del 6 agosto, non consentirono il benché minimo successo ai poveri fanti della Tevere. Attacchi e colpi di mano si susseguirono a ritmo incessante sotto una densa coltre di polvere e fumo sollevata dalle esplosioni. Fra le pietraie, gli avvallamenti, i detriti e le voragini aperte dalle cannonate, un centinaio di morti testimoniavano la crudeltà degli scontri avvenuti in quei primi giorni d’agosto sul plateau di Bocche e nei pressi dell’Osservatorio. In tre giorni di battaglia la Tevere perse 18 ufficiali, di cui 2 morti e 459 uomini di truppa, fra i quali 95 morti e 8 dispersi.
Attesi al varco da centinaia di berretti grigio-azzurri, bersaglieri e fanti lanciati in assurdi assalti frontali, furono letteralmente annientati dal nutrito fuoco delle MG e dagli schrapnel anche sul tratto di fronte compreso fra il Piccolo Colbricon, cima Stradon e le Buse dell’Oro (m 2187). Solamente sulla Grünen Sattel riuscì ai bersaglieri dalla 10^/ LXII, nonostante il fuoco incrociato delle Schwarzlose, il posizionamento di una ridotta sotto la verticale parete sud del Piccolo Colbricon. Qualsiasi tentativo di proseguire oltre,trovò tuttavia sempre l’opposizione dell’avversario o un’insuperabile muro roccioso, oltre il quale fu impossibile proseguire. In soli due giorni di scontri il 13° bersaglieri aveva perso 122 uomini, fra i quali 16 morti. La brigata Calabria 8 ufficiali (due uccisi) e 366 uomini di truppa (44 morti). Ciò non portò all’interruzione dei combattimenti, tutt’altro. Essi andarono avanti assai sanguinosi per tutto agosto e per buona parte dell’autunno, in un quadro strategico che comunque prevedeva di impegnare l’avversario su tutto il fronte, indipendentemente dai successi ottenuti. In particolare sul Piccolo Colbricon e alle Buse dell’Oro, si svolsero scontri di straordinaria violenza con pesanti perdite umane soprattutto fra le unità italiane lanciate all’assalto di posizioni imprendibili. In tale contesto che sembrava ormai aver assunto dei ben definiti ruoli, l’improvvisa conquista della vetta occidentale del Colbricon da parte dei bersaglieri italiani, destò particolare sorpresa, soprattutto per il modo con la quale essa avvenne. Il 15 agosto, i bersaglieri del XX/3° (ten.col. Pelagatti) avevano sostituito, sulle posizioni del Colbricon orientale, i commilitoni del 13° reggimento inviati al Nucleo Ferrari in Vanoi. Reduce dall’insanguinato fronte del Col di Lana, l’unità fu posta alle dipendenze della brigata Calabria e con essa iniziò fin da subito ad agire partecipando ad alcune infruttuose operazioni contro la Grünen Sattel. Insuccessi che suggerirono il comando della 17^ divisione di sospendere temporaneamente le azioni contro il valico, che evidentemente non poteva cadere se non in seguito a manovra avvolgente da eseguirsi dopo aver conquistato il Colbricon occidentale, data l’impossibilità di aprirsi la strada attraverso le Buse dell’Oro ed il Piccolo Colbricon. Il cosiddetto “Colbricon austriaco” tuttavia, saldamente in mano alle compagnie della 9^ Gebirgsbrigade, presentava un unico lato debole e cioè la strapiombante parete meridionale, scoscesa e incisa da stretti e pericolosi canaloni. Una via di accesso più adatta a reparti da montagna che ai bersaglieri del 3°. Ciononostante, all’alba del 2 ottobre, partiti nottetempo dal passo Colbricon, il plotone arditi, due compagnie (5^ e 6^) e la sez. mitragliatrici, raggiunsero la base dell’imponente parete meridionale del Colbricon occidentale. Per l’occasione il comando di battaglione si insediò sul rovescio dello sperone di q. 2227 (l’attuale Punta Ces), da dove avrebbe diretto l’operazione. Un’ora dopo, i cannoni italiani iniziarono a colpire le prime linee avversarie e tutte le vie di collegamento del settore, riproponendo l’ormai noto schema di attacco che da giorni tentava inutilmente di sgominare gli austro-ungarici dalle loro ben protette posizioni. Probabilmente all’oscuro delle reali intenzioni dell’avversario e costretti a ripiegare per non subire danni, gli sloveni (IV/87°) posti a presidio della vetta, fornirono agli assalitori la possibilità di avvicinarsi inosservati.
I plotoni, divisi in quattro gruppi, rispettivamente al comando dei s.ten. Turriani e Di Gregorio e dei serg. Baglini e D’Ambrogio, nonostante la caduta di pietre e detriti che ne rallentò la marcia, con l’ausilio di corde e qualche scala, ebbero modo di approssimarsi di soppiatto alle difese avversarie. Quando l’unità di vetta ebbe modo di avvedersi del pericolo imminente, era già troppo tardi. I primi fanti piumati erano ormai vicinissimi all’obiettivo difeso da un manipolo di quindici uomini che, frastornati ed increduli, dopo un violento scontro all’arma bianca, furono costretti a ripiegare circa cento metri più in basso, verso la Grünen Sattel. L’immediato e preciso intervento dell’artiglieria asburgica e l’accorrere di alcune riserve, impedirono ogni successivo progresso ai bersaglieri che furono perciò costretti a fermarsi al riparo fra le rocce del monte appena conquistato. Si trattò di una vera impresa alpinistica e militare che tuttavia non fruttò quanto i comandi regi si attendevano e cioè il cedimento dell’apparato difensivo imperiale fra il Colbricon e la val Travignolo. Ciononostante, la presenza degli italiani sul Colbricon occidentale contribuì ad irritare il comando della 90^ Infanteriedivision che non mancò di evidenziare le responsabilità, soprattutto degli ufficiali di settore, colpevoli di non aver organizzato efficacemente la difesa della posizione e di non essere stati in grado di costruire idonei ripari per le truppe, date le ingenti perdite subite. Su trecento uomini appartenenti alle due compagnie del IV/87°, solamente trenta rimasero incolumi, mentre ben 400 furono i morti e feriti della 9^ Gebirgsbrigade.
Sulla cima occidentale del Colbricon, i bersaglieri iniziarono fin da subito la costruzione di ripari in grado di proteggerli dalla reazione avversaria. Utilizzando soprattutto sacchi di sabbia e pietre furono erette ben sei trincee dell’altezza di circa un metro ed in grado di ospitare un contingente di una cinquantina di uomini. Un pericoloso e stretto sentiero fu realizzato sulla verticale parete sud del monte ed una serie di piccoli ricoveri nacquero contigui allo stesso. Sottoposti al persistente disturbo degli asburgici i lavori di consolidamento della vetta e delle immediate retrovie proseguirono tuttavia molto a rilento e alla fine di ottobre essi erano tutt’altro che terminati. Ciò andò a tutto vantaggio dei comandi imperialregi che, come era ovvio attendersi, avevano pianificato la riconquista dell’importante punto strategico. Lo consigliava l’imminente arrivo dell’inverno. La sera del 3 novembre, il s.ten. messinese Antonio Ammannato, vent’anni, assunse il comando della mezza compagnia di bersaglieri (7^/XX) incaricata di presidiare la vetta così faticosamente conquistata un mese prima. Una cinquantina di uomini schierati sulla frastagliata cresta rocciosa che dalla cima stessa scende alla selletta fra i due Colbricon. Contemporaneamente, tre plotoni d’assalto al comando degli alfieri Kurukz (IV/12°), Fabian (ciclisti) e del cadetto Hänsler (IV/87°), si erano spinti inosservati a poche decine di metri dalle trincee italiane. Pronti all’azione Ufficiale di complemento e fresco d’accademia, il giovane Ammannato era giunto in zona operativa verso la metà di ottobre e soddisfatto di far parte di una delle più prestigiose unità dell’esercito italiano, così scriveva ai propri famigliari: “Mi trovo al glorioso 20° Battaglione, e nulla avevo scritto prima per non farvi stare in pena. Sono contento di appartenere ad un battaglione che si é coperto di onore e di gloria. Non posso scrivere spesso. Se non riceverete mie notizie non pensate a cose gravi .”
Orgoglioso del proprio ruolo egli non ebbe tuttavia nemmeno il tempo di controllare l’avamposto assegnatogli che, verso mezzanotte, un inatteso fuoco di cannoni e bombarde cominciò a colpire e demolire le deboli difese erette dai bersaglieri nei giorni precedenti. Colto di sorpresa il presidio italiano subì pesanti perdite per l’esposizione ai tiri d’infilata provenienti dal Piccolo Colbricon. Storditi e riparati alla meglio fra gli anfratti rocciosi, gli italiani non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo che, con un impressionante Hurrà, le prime squadre di assaltatori nemici, armate di pugnali, baionette e bombe a mano, si scagliarono su di loro ingaggiando una violentissima lotta corpo a corpo. Gli uomini al comando del s.ten. Ammannato, pur inferiori di numero, riuscirono per ben due volte a respingere gli assalitori ma l’esito della lotta era ormai deciso. Sostenuti dalla propria artiglieria i plotoni imperiali riuscirono ad avere la meglio sui bersaglieri superstiti che uno dopo l’altro capitolarono in feroci scontri all’arma bianca o rotolando lungo i burroni della parete meridionale, dalla quale erano saliti un mese prima. Antonio Ammannato, dopo aver urlato alla radio che “ (…) il nemico è in trincea”, sparì per sempre, con la maggior parte dei suoi compagni d’armi nel trambusto della battaglia. La maggior parte, compreso l’ufficiale siciliano, non furono mai più ritrovati e risultano ancora oggi dispersi. L’alba del 4 novembre colse gli opposti schieramenti avvinghiati fra le rocce ad alcune decine di metri l’uno dall’altro. I tentativi dei fanti sloveni, ungheresi e slovacchi di proseguire in direzione del Colbricon orientale, furono durante la notte arrestati dalle sopraggiunte riserve italiane e dalla difficoltà del terreno.
cima ovest del Colbricon. “La 6ª e la 5ª Compagnia dopo aver per tutta la giornata del 7 novembre (unitamente al Nucleo Arditi) tentato a più riprese la riconquista del cocuzzolo della 2ª cima, vi debbono rinunciare, perché il nemico in forza, nascosto fra le anfrattuosità delle rocce, che l’artiglieria non può battere efficacemente, si difende accanitamente lanciando una vera pioggia di bombe sugli assalitori. Pochi giorni dopo il tempo cambiò repentinamente e la neve giunse copiosa a porre fine alle operazioni militari. Era iniziato il secondo inverno di guerra in alta montagna che tuttavia sul Colbricon e alle Buse dell’Oro vide austro-ungarici ed italiani proseguire la loro sfida in un ambito del tutto nuovo, almeno per il fronte delle Fassaner Alpen: la guerra di mine.