Testo: Luciano Gadenz - Guida Alpina | Foto: archivio della spedizione e di Alfonso Bernardi
Il tempo scorre sempre più veloce ed inarrestabile, ma il ricordo degli eventi passati rimane comunque dentro di noi e ci dona forza e coraggio per proseguire i giorni futuri, specie se i protagonisti erano a noi particolarmente vicini e le loro azioni non solo erano importanti, ma soprattutto ci hanno insegnato ad affrontare la vita.
Sono ormai trascorsi quarant’anni dalla Spedizione delle Aquile di San Martino Primiero sul lontano Dhaulagiri nella Catena Himalayana, ed è giusto e doveroso ricordare l’impresa ed i suoi protagonisti, con la volontà di riportare loro ancora più stima e riconoscenza.
Il Dhaulagiri è alto 8172 metri sopra il livello del mare e le Guide Alpine di San MartinoPrimiero Silvio Simoni e Giampaolo Zortea ne raggiunsero la vetta il 4 maggio 1976; questa fu la prima ascensione vittoriosa di un Ottomila compiuta da una Spedizione Trentina. In quegli anni le Spedizioni Himalayane non erano, come oggi, supportate da importanti finanziatori, sponsor, e non esisteva ancora tutto il materiale studiato e prodotto successivamente per affrontare il clima e le asperità di quelle quote.
Ma soprattutto le Guide Alpine volevano vivere il loro rapporto con la Natura con grande rispetto ed umiltà, affermando e ribadendo che l’arrampicata non è uno sport, ma soprattutto non è una competizione; è il confronto dell’uomo con il mondo in cui vive, capace quindi di rinunciare, là dove umilmente si riconosce che la Natura è più forte e che la vita è importante, sacra e va rispettata.
Della Spedizione al Dhaulagiri si è parlato tanto, essendo stata realizzata da Professionisti della Montagna. Senza entrare negli aspetti tecnici dell’ascensione, che vengono illustrati in un’altra nota, è importante sottolineare come è nata ed è stata vissuta questa esperienza, che se ha visto le Guide Alpine come i protagonisti vittoriosi, ha però realizzato un coinvolgimento ed una partecipazione affettiva ed emotiva di tutta la popolazione del Primiero e del Trentino, molto vicina alle nostre Aquile, che portavano lassù ad oltre ottomila metri di quota la storia di tutte le genti di questa vallata dolomitica.
Questa Spedizione nasce alla fine di novembre del 1975 quando Renzo Debertolis, interpellato da Francesco Santon titolare del permesso nepalese, nel corso dell’Assemblea Annuale delle Guide ne parlò; il dibattito non fù molto lungo e in pochi giorni si iniziò l’organizzazione, con la sottoscrizione di un prestito bancario, la richiesta di contributi, le visite mediche, l’acquisto dei materiali e la ricerca di un volo che portasse uomini ed attrezzatura da Linate a Kathmandu, capitale del Nepal. Le Aquile che fecero parte all’impresa sono: Renzo Debertolis capo spedizione, Camillo De Paoli, Gian Paolo De Paoli, Luciano Gadenz, Gian Pietro Scalet, Silvio Simoni, Edoardo Zagonel e Gian Paolo Zortea, cui si aggregarono Sergio Martini di Rovereto, Francesco Santon di Fiesso d’Artico, Luigino Henry di Courmayeur ed Achille Poluzzi medico.
Normalmente l’organizzazione di una grande spedizione himalayana richiede un anno di tempo: si doveva invece partire nel febbraio del 1976, per rispettare i permessi e le situazioni climatiche legate ai monsoni, per cui il tempo era pochissimo. Tutta la Valle di Primiero e la Provincia di Trento si mobilitò: chi procurando abbigliamento ed attrezzature tecniche, chi viveri, chi corde e chiodi da ghiaccio, chi tende ed altre attrezzature necessarie alla salita di un ottomila. La situazione finanziaria del Gruppo Aquile, priva di sponsor specializzati, non era ottima, ma riuscirono a raccogliere in oltre cento casse tutto il materiale ed i viveri, rinunciando necessariamente ad alimenti liofilizzati, ma pensando che in montagna si mangia formaggio e speck. Tutti correvano e sembrava pronto addirittura il volo aereo dell’Areonautica Militare Italiana, quando pochi giorni prima della partenza viene l’annuncio che l’aereo non ci sarà a causa dello scandalo Lockeed; bisogna trovare un volo di linea per uomini e bagagli, naturalmente a pagamento, e così il giorno 20 febbraio 1976 a Linate arrivano i camion con le casse ed i protagonisti della spedizione per imbarcarsi. Alle dieci del mattino del 25 febbraio sbarcano a Kathmandu. Bisogna correre ancora per ottenere tutti i permessi ed i visti necessari per l’importazione delle attrezzature e per assumere i portatori: si tratta di una grande spedizione, che richiede tanti uomini. Servono sherpas esperti e tanti portatori. La burocrazia esaspera Renzo Debertolis e Francesco Santon, che comunque riescono ad ottenere tutti i permessi pagando alcune decine di migliaia di rupie, la valuta locale.
Questo incontro con una civiltà così diversa aumenta ancora di più la volontà di raggiungere l’obiettivo che le Aquile si erano poste: vivere la montagna che li attendeva, rimanendo compatti ed uniti.Finalmente si parte da Katmandu per Pokhara, dove inizia l’avventura: trecentosettanta portatori e nove sherpas risalgono le vallate che portano alla base del Dhaulagiri, che in nepalese significa Montagna Bianca. Solamente il 23 marzo 1976 riuscirono ad allestire il Campo Base, senza i portatori che già da cinque giorni, ricevuta la paga di 18 rupie al giorno, se n’erano andati di corsa verso valle.
Le condizioni atmosferiche sono sempre più avverse, proprio quando tutti i componenti la spedizione iniziano la loro salita, superando i seracchi del ghiacciaio, ponendo le corde fisse e preparando i campi alti che permetteranno la conquista della vetta. Tutti collaborano, lavorano, si impegnano: è questa ancora una volta la dimostrazione che non esistono personalismi ed invidie, ma che il gruppo è compatto ed unito in questo confronto importante con le difficoltà e con la necessità di adattarsi ai rigori del clima e della quota, specie lassù dove l’ossigeno è sempre più scarso. Si può affermare che pochissime spedizioni private hanno vissuto l’esperienza delle Aquile sul Dhaulagiri: se non avessero avuto lo speck ed il formaggio grana come alimentazione basilare non sarebbero certamente riusciti nella loro impresa. Ma soprattutto avevano una volontà ed un amore infinito per la Natura, insieme all’esperienza di vita sulle montagne di casa ed il riconoscere che non esistono gerarchie e che bisogna rispettare i propri limiti e la necessità di essere un gruppo compatto. Nel mese di aprile 1976, con quotidiane nevicate e bufere di neve, l’ascesa dai 4610 metri del Campo Base arrivò ai 7100 metri sul livello del mare del Campo 4, con una alternanza continua dei vari componenti la Squadra e con l’accettare che questo lavoro estenuante e faticoso logora le forze di parecchi, che dovettero rientrare ai Campi inferiori, lasciando l’ultimo sforzo alla cordata arrivata al campo 5 a quota 7530 metri e formata da Luciano Gadenz, Silvio Simoni e Giampaolo Zortea. Bisogna pensare che l’attrezzatura non era eccellente, l’alimentazione era non certo ottimale per quelle quote e quell’aria così rarefatta, dove il recupero delle energie e la necessità di assumere tanti liquidi è indispensabile.
Non si dimentichi che a quelle quote l’acqua bolle sotto i quaranta gradi e che fu portato in quota, per cibare gli scalatori, addirittura dello spezzatino di bufalo, non avendo cibi speciali e poco pesanti tipo i liofilizzati; la base alimentare era riso in bianco, tè nepalese, brodo vegetale in cui qualche volta si cuocevano gli spaghetti indiani insieme a qualche scatoletta di carne indiana e fagioli! Alimentazione monotona per circa due mesi e priva di potere calorico: eppure i nostri trovavano addirittura la forza di farsi più di una risata e di festeggiare, con una torta con candelina, il quarantaseiesimo compleanno di Edoardo Zagonel.Ma il gruppo era estremamente unito e con ansia attese il 4 maggio, quando dal campo 5 la cordata di punta decise l’attacco finale alla vetta.
A circa 7900 metri di quota Luciano Gadenz rinunciò a proseguire: fu una scelta difficile e certo sofferta, ma dimostrativa dell’intelligente rispetto della Montagna e della propria vita, in quanto avvertiva un principio di congelamento alle dita. L’ascesa proseguì ed alle ore 14,30 del 4 maggio 1976 Silvio Simoni e Giampaolo Zortea piantarono le piccozze con la bandiera del Trentino e delle Aquile di San Martino sugli 8172 metri della vetta del Dhaulagiri 1, avvolta nelle nebbie e nella bufera, conquistata così per la quarta volta nella sua storia, ma soprattutto per la prima volta, senza l’aiuto delle bombole di ossigeno, da una Spedizione Trentina i cui protagonisti erano Guide Alpine del Gruppo Aquile di San Martino di Castrozza-Primiero.L’esperienza delle Aquile di San Martino Primiero rimane nella storia dell’alpinismo, sia perchè realizzata da professionisti della montagna con il loro diretto finanziamento parzialmente aiutato da Enti e Cittadini, sia per la grande dimostrazione di coraggio, di forza e di unità dell’intero Gruppo, sia per la grande resistenza degli uomini in alta quota senza l’uso di ossigeno e per la contenuta ed inusuale qualità dell’alimentazione quotidiana, sia per la lontana partecipazione delle famiglie dei protagonisti e di tutti i cittadini della Valle di Primiero e del Trentino, a cominciare dagli alunni delle scuole elementari, che aspettavano le cartoline dal Nepal e scrivevano i loro compiti sulla Spedizione, per finire con le Guide Alpine Anziane che andarono ad attendere il rientro dei loro colleghi all’areoporto di Linate con tanti abbracci etante sincere lacrime: tutti erano, e lo sono ancora, stretti e vicini alle Aquile, a quelle Guide Alpine cui la storia di San Martino di Castrozza e Primiero deve molto.
Maurizio Toffol Speaker di spedizione
4 MAGGIO 1976 Luciano racconta
Come in gran parte delle giornate dell’ultimo mese, il vento spazza le creste nevose e gli affioramenti rocciosi. La vetta del Dhaulagiri è avvolta nel turbine di neve e nuvole e la visibilità è disturbata dal pulviscolo nevoso; sono alcune ore che sprofondiamo e procediamo con fatica.
Ci avviciniamo agli 8000metri. Il malessere avvertito durante la scomoda nottata nella tendina del campo 5 incomincia a manifestarsi con un intenso freddo ai piedi. Eravamo stretti, scomodi, insonni, Silvio è riuscito a dormire, Giampaolo ed io poco o niente. Abbiamo incominciato a prepararci alle 3 e dopo lunghissimi preparativi: vestirsi, sciogliere neve per le bevande, mangiare qualcosa, nonostante manchi ogni stimolo di appetito, controllare l’attrezzatura e finalmente siamo partiti alle 6. Siamo indecisi se continuare a proseguire sulla cresta percorsa dalle altre spedizioni, che ci sembra tecnicamente più impegnativa o rimanere sotto cresta su pendii nevosi che salgono verso la vetta. Il freddo ai piedi mi infastidisce e mi fermo per far riprendere la circolazione massaggiandoli. Decido di fermarmi, mentre Giampaolo e Silvio continuano. Dopo un po’ di tempo riacquistata la sensibilità mi sembra di stare meglio e riprendo la salita. Vedo i compagni in alto sulla sinistra, poi il turbinio del vento aumenta e scompaiono dalla mia vista. A malincuore ritorno al campo 5.
Giampaolo e Silvio raccontano
Verso le 10,25 a quota 7.890 facciamo un collegamento con il campo 2, che sarà l’ultimo. Ci scambiamo poche parole: “…fursi ghe la fon…” chiediamo conferma dell’ora. In poco tempo siamo nuovamente in cresta, la percorriamo in direzione di quella che a noi pare essere la vetta. In realtà la cresta presenta un ante cima che maledettamente dobbiamo attraversare prima della vetta vera e propria. Verso le 11,30 le nubi accompagnate da raffiche fortissime di vento e di neve ci avvolgono completamente. Perdiamo quasi l’orientamento.
L’ultimo tratto abbastanza ripido ci richiede molta fatica,anche se l’altimetro ci assicura una quota vicina alla vetta. Dopo 3 ore di penoso procedere all 14,30 ci rendiamo conto che davanti a noi la cresta scende precipitosamente verso sud-ovest. La quota dell’altimetro ci dà 8.192. La vetta! Dopo 47 giorni sù e giù, il Dhaulagiri è vinto e, quasi imbronciato per la nostra presenza, non ci ha voluto regalare neppure un attimo di schiarita. Tentiamo invano un collegamento radio, ci facciamo delle foto, beviamo un po’ di thè e insieme con la bandiera della spedizione piantiamo la bandiera italiana e quella nepalese. Ci sentiamo profondamente soddisfatti, consapevoli di aver portato a termine un grosso impegno. La gioia è grande, ma bisogna ritornare e riabbracciare gli amici per festeggiare assieme la vittoria. Ci buttiamo in discesa sprofondando nella neve fino al campo 5 dove Luciano ha preparato il thè. Stà nevicando, la montagna diventa buia, siamo stanchissimi, vorremmo buttarci nel sacco a pelo, ma convinti da Luciano scendiamo al campo 4 portando con noi ciò che possiamo. Alle 16,30 abbiamo dato notizia a Renzo al campo 2 e la grande gioia è rimbalzata anche ai campi bassi.
Dal diario di Renzo Debertolis del 4 maggio 1976
Ho dormito in tenda con Martini che ha tossito senza un attimo di sosta. Io non ho chiuso occhio pensando ai giovani lassù. Ore 8 -Cerco inutilmente un collegamento radio. Si vedono le fumate della neve sulla vetta. Il vento lassù dovrà essere fortissimo. Finalmente alle 10,25 la radio da segni di vita. Zortea mi comunica che sono a 7890 metri oltre il campo Usa. Non posso credere e mi faccio ripetere la quota. Li pensavo chiusi nella tendina Ravelli e invece lottano contro il vento. Con lui c’è Simoni, Luciano è rimasto indietro perchè accusa insensibilità alle mani. Mi chiede l’ora, tutto procede bene, nonostante le raffiche… contano di arrivare in vetta. Ora c’è il vuoto. La radio sempre aperta è silenziosa. Siamo avvolti dalla nebbia, il freddo è intenso. Mi aggiro come un disperato davanti al Campo II con il piccolo apparecchio incollato all’orecchio.
Ma è sempre muto, la mia tensione è al massimo e l’ impossibilità di agire mi tormenta. Le ore passano con una lentezza esasperante, non si vede nulla, la montagna è sepolta nella nebbia. Il vento solleva turbini di neve, frammenti quasi impalpabili di ghiaccio che mi investono, ho la barba che è un blocco bianco.Ore 16.30 – La radio si risveglia. La fioca voce di Gadenz mi comunica che la vetta è stata raggiunta. Non riesco a parlare, a rispondere, a chiedere qualcosa tanta è l’emozione che mi prende e mi soffoca. Io chiamo e mi faccio ripetere il messaggio. Me lo conferma e mi dice che è arrivato a 7900 poi è dovuto scendere al Campo V. Zortea e Simoni sono arrivati in Cima alle 14.30. Ora sono lì con lui nella tendina stanchissimi e provati. Vorrei parlare con Zortea, ma è troppo stanco per rispondermi. Ore 19.15 Gadenz mi comunica che ora sono tutti al Campo IV. Sta bene ma gli altri fanno fatica a respirare e chiede consiglio al medico per aiutarli. 5 maggio -Nessuno ha dormito al Colle. Alle 8.15 dal Campo IV mi dicono che hanno trascorso una notte insonne e agitata. Alle 13 arriva Zortea, si trascina a fatica, lo abbraccio piangendo in un misto di gioia e riconoscenza. Mezz’ora dopo arriva Silvio, ma sembra il suo fantasma, è ubriaco di stanchezza. Poi arriva Gadenz allegro, sereno e felice. Le ore, lunghe ore di angosciosa attesa sono finite. Posso dormire.
Il valore della spedizione di Luciano Gadenz
Una impresa alpinistica è ben difficilmente collocabile in una graduatoria assoluta, fatto com’è di troppi elementi, umani, tecnici, ambientali ed anche di imponderabilità, ma si può affermare che la salita al Dhaulagiri del 1976 merita un posto di primissimo ordine. “Successo prezioso” titolava un articolo di Alessandro Gogna (noto alpinista e scrittore) su TuttoSport del 12 Giugno 1976. “Non si era mai dato il caso che un gruppo di Guide avesse la idea, organizzasse ed eseguisse interamente con le proprie forze e buona volontà un’impresa di questo genere… Molto spesso, in partenza, si dubita che l’entusiasmo basti. Ma non vorrei insistere soltanto sul valore morale di questi uomini perchè essi hanno dimostrato che è possibile creare in una spedizione un’intesa perfetta, che oggi si può salire un 8000 con appena due mesi di preparazione logistica, che si possono ridurre i costi con l’adozione di cibo locale per lunghe permanenze al Campo Base ,risparmiando così su trasporti e dogane”. In campo Italiano sugli 8000 c’erano state la conquista del K2 di Desio e l’Everest di Monzino con due sfortunati tentativi all’Annapurna e al Lhotse, spedizioni che richiesero tempi lunghissimi di preparazione e costi astronomici e che lasciarono lunghe polemiche e rivalità. Il Dhaulagiri I è una montagna molto impegnativa e fino a quel momento moltissimi erano stati i tentativi di salita dai vari versanti e solamente tre spedizioni vi erano riuscite. Nel 1950 era stato avvicinato dalla spedizione francese di Maurice Herzog che però aveva ripiegato sull’Annapurna conquistandola come primo 8000. Nel 1960 la spedizione svizzera di Max Eiselin effettua la prima salita lungo la cresta NordEst, supportata da un aereo Pilatus, chiamato Yeti, per i rifornimenti al colle NE 5750 metri. Nel 1970 sono i Giapponesi di Tokufu Ota e Shoji Imanari che salgono per quella che verrà poi considerata la via normale. Nel 1973 la spedizione americana di James Morrissey effettua un tentativo alla affilata cresta SudEst per poi ripiegare sulla cresta NE e coronare la salita il 12 maggio con seri congelamenti a Roskelley. Anche gli Americani usufruirono dei rifornimenti di un aereo fino al colle considerato il loro Campo Base, così da avere enorme quantità di materiali tecnici e alimentari. Saranno i viveri trovati nei resti del loro Campo 2 tra i nostri Campi 4 e 5 ad aiutarci gli ultimi giorni in quota e sopra-tutto a sollevarci dallo scoramento della inadeguatezza oltre che della scarsità della nostra alimentazione ai campi alti. Emanuele Cassarà, giornalista e scrittore di montagna, nel suo libro “Un Alpinismo Irripetibile” descrive la via di NordEst come una lunga cresta nevosa che inizia al colle NE a 5870 metri paragonata da Luigino Henry alla Kupfner o alle difficoltà dello Sperone della Brenva al Monte Bianco ma di sviluppo doppio.
Il libro della spedizione americana: The American Expedition of Dhaulagiri porta il titolo “Mountain of Storms”, Monte delle Tempeste riprendendo un detto Nepalese che per “Tempo da Dhaulagiri” indica vento, nuvole, bufere e chi si è avvicinato a quella montagna, ha sempre avuto modo di cimentarsi con queste condizioni climatiche. Alfonso Bernardi (scrittore di montagna e autore di Il Gran Cervino e Il Monte Bianco in 2 volumi) è stato testimone della spedizione condividendo la permanenza in Nepal sia a Katmandu con i problemi burocratici delle autorizzazioni sia con l’organizzazione del coll. Ondgi nel rapporto con i portatori e gli sherpas, comprese le “indimenticabili, lunghissime giornate “al Campo Base ed è autore della cronaca di quei momenti nel libro Trentini sul Dhaulagiri 8172 m” è un “racconto che si sviluppa in modo documentaristico, come in una sequenza fotografica, nello stile essenziale e sobrio che riflette lo spirito con cui le Guide di San Martino e Primiero si sono misurati con un 8000 “(Giovanni Spagnolli). E con Alfonso Bernardi ricordiamo lo spirito di allora: “la selezione imposta dalla fatica e dalla altitudine fu spietata. Non risparmiò nessuno, ma tutti tennero duro, mugugnando, protestando se le cose non andavano come avrebbero dovuto, ma pronti a ripartire con il sole o col vento, con il nevischio o la nebbia, caricandosi di pesi che neppure gli sherpas portavano. Mollavano solo quando, esaurite le ultime energie, si rifugiavano nelle tende nascondendosi dentro i sacchi piuma, quasi vergognandosi per aver abbandonato la lotta”.
E un ultimo ricordo della grande partecipazione della Valle di Primiero lo lasciamo ancora alla penna di Emanuele Cassarà: “Non avevo mai visto piangere una Guida Alpina, eppure ne conosco tante. Non dico che una Guida non possa piangere o non sappia piangere, dico che mi era difficile immaginarlo. Ad attendere la spedizione di ritorno dal Nepal erano in tanti, c’erano uomini grossi e rubicondi coi cappelli larghi e i maglioni con lo stemma della loro valle e alcuni, quelli molto vecchi, portavano delle picche incise nel legno, nuove di zecca, al vertice delle quali troneggiava un’aquila. Roba semplice, naturalmente, ma strana, che ricordava i trofei di antiche tribù africane o i totem dei pellerossa e che la gente, all’aeroporto, guardava con curiosità senza capire”. Poi finalmente l’incontro con i vincitori e allora di nuovo pianti e abbracci di gioia, orgoglio e soddisfazione. E ancora il rientro a Primiero, un bagno di folla e il racconto, le serate di diapositive con lunghi festeggiamenti. Sono passati 40 anni e Luigino, Camillo, Renzo e Alfonso non ci sono più, ma il ricordo di quei 3 mesi e le immagini dei loro volti sono impresse negli altri membri senza segni di invecchiamento o di aloni confusi. Ogni esperienza limite segna eternamente chi la vive nell’intimo del proprio animo.