Testo: Erwin Filippi Gilli
Storia e cagioni dell’orribile rilascio accaduto in Canal San Bovo nel dicembre 1825
Sono stato a lungo indeciso su che titolo dare a questo contributo che riguarda la Valle del Vanoi; la scelta spaziava tra quanto scritto dall’allora farmacista Patuzzi, Storia e cagioni dell’orribile rilascio accaduto in Canal S.Bovo nel dicembre 1825 e quello del poemetto di Mons. Nicola Negrelli, Il Rebrut o le rovine delle alpi canalesi in Tirolo: alla fine mi è parso che il primo rendesse meglio quanto successo nel lasco di tempo di alcune decine d’anni nella zona di Canal San Bovo.
Prima di ricostruire la storia è però bene individuare i luoghi.
Il Rebrut è il primo corso d’acqua in sponda destra del Vanoi che si incontra a monte del viadotto della strada di passo Brocon nei pressi di Canal San Bovo: si tratta di un torrentello alpino abbastanza pendente che raccoglie gli apporti meteorici della zona di Colmandro.
Dal punto di vista geologico l’area è impostata su rocce di tipo metamorfico (micascisti, filladi, paragneiss), ovvero formazioni che si degradano con relativa facilità dando luogo a un detrito in cui la frazione argillosa ha una notevole importanza: chiaramente la presenza di argille si ripercuote sulla stabilità dei pendii rendendoli instabili
Chiaramente la situazione attuale nei riguardi della copertura forestale è decisamente migliorata: sia i fenomeni franosi avvenuti nell’Ottocento sia la fortissima riduzione nella pratica della coltivazione dei prati di mezza ed alta montagna, hanno fatto sì che il bosco abbia decisamente preso il sopravvento sugli altri utilizzi del territorio: sui versanti prevalgono boschi di conifere (abete rosso principalmente ma anche abete bianco) dotati di provvigioni (ovvero volumi per ettaro) abbastanza importanti.
Analizzando il “Bruilon d’un pezzo del Torrente Vanoi con la Valle di Rebrut” ovvero l’acquerello di Luigi Negrelli (l’originale è conservato a Trento presso il Museo di Scienze Naturali mentre una copia è visibile nella sala dedicata a Luigi Negrelli nel Palazzo delle Miniere a Fiera) appare subito evidente come nell’Ottocento la copertura forestale dell’area sommitale del bacino fosse estremamente rada e come, almeno stando a quanto raccontato dai Fratelli Fontana (detti Margiolati) a Ferruccio Romagna1 esistessero numerose aree coltivate a prato e che queste spesso venissero irrigate deviando le acque delle sorgenti sul Pian della Barra.
Analogamente le sponde del rio e gran parte dell’originaria zona franosa si sono rivegetate grazie all’espansione principalmente dell’ontano bianco e di qualche altra specie cespugliosa.
La frana
Il fenomeno che ha interessato gran parte del versante del Rebut è complesso ed ha varie cause scatenanti tra cui il disboscamento massiccio dell’area, i terreni di natura metamorfica, piogge eccezionali e l’usanza di deviare le sorgenti e irrigare a scorrimento i prati; queste cause concatenate tra loro hanno concorso l’una ad aggravare gli effetti dell’altra.
La causa di questo improvviso distacco non fu solamente il disboscamento massiccio, ma anche l’usanza di deviare le sorgenti sul Pian della Barra per l’irrigazione dei prati; le acque, infiltrandosi in modo disordinato e diffuso nel terreno a forte matrice argillosa, destabilizzarono tutto l’ammasso creando le condizioni per la formazione di movimenti gravitativi di versante. A complicare ed aggravare le cose nel 1809 venne effettuato un imponente taglio di legname nella val di Canais e nella valle del Rebrut.
La cronologia dell’evento
Il fenomeno franoso inizia, o meglio abbiamo le prime notizie di un qualche tipo di dissesto in atto, poco prima della metà del Diciottesimo secolo; nell’agosto del 1748 nel bacino del Rebrut si erano verificati modesti movimenti di terreno.
Secondo le cronache del tempo ogni volta che pioveva si potevano osservare fenomeni di “trasudamento del terreno” (si trattava probabilmente di piccole colate di fango in corrispondenza delle sorgenti) nella zona di Pian della Barra.
Poco prima del 1800 venne notata, tra il Pian della Barra e le sottostanti valli di Canais e Rebrut, la formazione di una frattura che portò all’abbassamento per una profondità di circa dieci metri di una grande zolla di terreno.
La causa di questo improvviso distacco non fu solamente il disboscamento massiccio, ma anche l’usanza di deviare le sorgenti sul Pian della Barra per l’irrigazione dei prati; le acque, infiltrandosi in modo disordinato e diffuso nel terreno a forte matrice argillosa, destabilizzarono tutto l’ammasso creando le condizioni per la formazione di movimenti gravitativi di versante.
Il versante, privato del bosco e del suo effetto di stabilizzazione (inteso come dissipazione dell’energia della pioggia battente ma anche come capacità di trattenuta del terreno da parte delle radici delle piante) iniziò ad essere solcato da una serie di fratture che altro non erano che i segni premonitori del futuro distacco.
Nella prima metà del mese di ottobre del 1823 si verificarono una serie di precipitazioni estremamente intense e prolungate. Iniziò in quell’anno il grande franamento del Rebrut che si manifestò con una serie di smottamenti di terreno che resero torbide prima le acque del Vanoi e, di conseguenza, quelle del Cismon e del Brenta poi. Questo continuo apporto di materiale durò per un periodo molto lungo, circa sei mesi ed il detrito trascinato dal Vanoi contribuì a portare distruzioni e rovine anche fuori dalla valle: tra Ponte Serra ed Arsié il materiale alluvionale seppellì una chiusa che serviva al mulino Zadra prima di Fonzaso, inghiaiò la campagna ai piedi del Monte Faller e contribuì a distruggere la regia strada postale.
Nella primavera del 1824 il fenomeno parve arrestarsi e la valle sembrò consolidarsi: purtroppo questa tregua durò solo alcuni mesi.
Nel mese di novembre del 1825 era piovuto molto e sui monti era anche nevicato: il 7 dicembre avvenne un fenomeno meteorologico del tutto analogo a quello del 4 novembre 1966; un forte rialzo termico causato da venti di scirocco sciolse completamente la neve caduta e le acque di scioglimento si infiltrarono nel terreno già estremamente umido.
Il 13 dicembre del 1825 si verificò un altro importante smottamento dai dorsi dei Fondi e dei Mandrizi e la colata di materiale attraversò il Vanoi e si appoggiò sulla riva sassosa del Fondel e delle Fiamene distendendosi per 1850 metri lungo il torrente Vanoi fino a Canale di sotto.
La scarpata creatasi poco prima del 1800 in località Pian della Barra si abbassò di altri tre metri e scaturì una nuova sorgente sulla costa dei Fondi. Il detrito scivolato fino all’alveo del torrente Vanoi creò uno sbarramento che alzò il livello del torrente di circa 24 metri creando così un lago a monte (il così chiamato Lago Nuovo).
L’emissario del nuovo lago era posto verso la riva del Fondel delle Fiamene: l’invaso misurava allora 444 metri di lunghezza, 74 di larghezza e 13 di profondità, ovvero conteneva circa 200.000 mc d’acqua.
Il sollevamento di 15 metri del letto del torrente portò il livello del Vanoi a circa 2 metri dalle case della frazione di Ponte, obbligando gli abitanti della valle a ricostruire più in alto la strada di collegamento tra Canale e Caoria.
Per consolidare il dissesto, venne studiato un progetto che comprendeva sia una serie di briglie lungo il Rebrut sia una intensa opera di rimboschimento del versante: l’altissimo costo dell’operazione però (120.000 lire austriache) ne impedì la realizzazione.
Nell’anno 1826 si ebbe una nuova alluvione. Il materiale trasportato dal Vanoi raggiunse le frazioni di Ponte e di Remesori portandovi distruzione e morte.
Il 19 maggio iniziò l’apertura della stua: le acque impetuose, oltre ai tronchi, trasportarono però anche una notevole quantità di materiale che raggiunse le case di Ponte ed intaccò la collina su cui si trovava la chiesa di Canale di Sotto.
Questa nuova sciagura ha cause sia naturali, le piogge intense, sia umane: infatti nella seconda metà del mese di maggio 1826, per agevolare il trasporto di legname tagliato nei boschi della Valsorda sopra Caoria, i boscaioli costruirono una “stua” (ovvero uno sbarramento in legname), che fu posta di traverso al torrente Valsorda. Nel mezzo del manufatto un’apertura avrebbe lasciato fuoriuscire l’acqua, quando questa avesse raggiunto il livello desiderato. La fluitazione, ovvero il trasporto del legname mediante la formazione di una piena controllata, era un sistema molto usato in quel periodo e quasi tutto il legname venduto all’estero, ovvero nel Regno d’Italia, veniva trasportato lungo i torrenti.
Questo innalzamento del letto del torrente, unito ad un ulteriore franamento del Rebrut a causa delle piogge del 27 e 28 maggio, creò nuovi problemi a Canale.
L’evento è ben descritto nel Messaggero Tirolese del 04/07/1826, in un articolo siglato T.B.
“[…] Le continue lunghe piogge fecero si che si slamarono dal Monte Rebrut, posto sulla sponda destra del torrente Vanoi, immense masse di sassi e terra, le quali precipitandosi nel letto del torrente fermarono il suo corso. Egli divenne presto un lago, e poscia si aprì violentemente il passo sulla sponda sinistra verso la villa di Ponte, e seppellì colla maggior parte dei suoi campi sotto la ghjaia che seco traeva in modo, che solo alcuni cammini (camini n.d.r.), che soprastanno alla ghiaia, indicano il luogo ove stava Ponte.”
Il governo del Tirolo, a conoscenza dei nuovi fatti, diede disposizioni per la difesa della chiesa e dell’abitato di Canale di Sotto. La direzione dei lavori venne assegnata all’ingegner Bassi ed al sovrintendente Negrelli: nel mese di giugno iniziarono i lavori. Si deviarono le acque sorgive del Rebrut nella valle Stizzi ed altre nella val Canais, con canali di legno scavato posti su cavalletti e puntelli; vennero altresì realizzate altre condotte che captarono la falda del Pian della Barra utilizzando la tipologia delle cunette selciate scavate su terreno in apparenza solido.
Nel mese di agosto del 1826 si passò all’opera di protezione del colle della chiesa; accorsero anche molti volonterosi dalla valle di Primiero. Furono costruiti cinque cassoni lunghi 250 metri, con pali alla distanza di quattro metri e mezzo l’uno dall’altro. Quello che successe nell’anno successivo è descritto da A.M. Negrelli in Memorie che servono alla Storia della sua vita, …:
“[…] nell’aprile 1827 mi spostai in Canale in compagnia dell’ingegnere circolare Sig. Bassi col quale, dietro gli ordini governiali, io passar doveva d’accordo per erigere le necessarie riparazioni. […] Io rimasi dunque in Canale per agire intorno quei lavori che si andavano costruendo ma che, per qualità del disastro e delle rovine sempre più incalzanti, non conseguivano giammai il sospirato buon effetto. Quasi tutta la stagione io travagliai intorno a quei molteplici e dispendiosi lavori che costarono ragguardevoli somme e, sebbene la popolazione al di qua della Gobbera dietro gli miei inviti concorrevano volenterose e numerose condotte da rispettivi loro curati a tamburo battente in Canale per portar le loro mani d’opera sopra què molteplici lavori.
Dovendosi dire che, in una certa giornata, tanti lavoratori si erano uniti che il loro numero assendeva a circa 1000 persone.” Nel complesso, escludendo quelli alle frazioni di Ponte e Remesori, negli anni dal 1823 al 1827 gli abitanti di Canal San Bovo ebbero danni alluvionali per circa fiorini 39.500 come risulta dal Rilievo dei Danni recati dalle avenute fiumane in Canale San Bovo, non compresi li dannegiati del Ponte e Remesori negli anni 1823, 1825, 1826 e 1827 redatto da Giacomo Michelli e conservato presso l’Archivio del Comune di Canal San Bovo nel faldone 1823.
Nella piena del 20 settembre 1829 la chiesa ed i Pianazzi vennero distrutti e scomparvero anche le imponenti opere di difesa costruite sotto la supervisione di Negrelli.
Il Parroco di Canal San Bovo (Lettera del parroco di Canale di Sotto al vescovo Luschin. In Voci di Primiero. Settembre 1952 n. 9 pag. 2) offre una descrizione accurata del fenomeno:
“Ai 14 del corrente, giorno dell’esaltazione di S. Croce, venne una dirottissima pioggia, si ruppe il lago e la brentana ingiarò tutti i ripari, non avendo sull’istante più legname in pronto per costruire nuove riparazioni. Li 19, cioè sabato prossimo passato, successe una seconda dirottissima, che diluviò tutto il giorno e la notte seguente dei 20, cioè ieri, domenica, di modo che alle ore tre e mezza di mattina erano ancora in piedi i muri del cimitero e alle quattro cominciarono a cascare. Tosto mi portai a levare coll’assistenza di alcuni tutte le canne dell’organo, che furono incassate e messe in salvo in questa mia canonica. Feci venire un marangone e un altro maestro e coll’assistenza di questi furono levati i somieri, i mantici, tutti gli attrezzi interni, pedaliera e tastiere di modo che questo istrumento fu messo in salvo. Dei due confessionali sotto l’orchestra, che formavano un bell’ornamento, furono salvate le pietre e il legname investito nel muro. Fu salvato il fonte battesimale, il pulpito, tutte le pietre poste in terra, tutti gli altari e i banchi. Intanto che si travagliava a fare lo spoglio il santissimo fu portato nella cappella di S. Anna. Appena fu levato il pulpito, circa le due dopo mezzogiorno, cascò subito la cantonata in fondo a parte sinistra e sulla sera cascò anche una colonna e in seguito tutta la facciata in fondo.”
Questa alluvione portò alla distruzione pressochè completa dell’abitato di Canale di Sotto.
Seguirono poi circa cinquant’anni di calma ma nell’anno 18822 la tranquillità finì.
L’anno 1882 si caratterizza infatti per un autunno con alcune piene: durante la prima il Lago Nuovo aumentò fino a raggiungere la lunghezza di 1700 metri, la larghezza di 400 e la profondità di 20, ovvero raggiunse un invaso stimato in 600,000 mc. Durante la piena principale nella zona dei Laghetti a monte di Refavaie la pioggia provocò una grossa frana che formò a sua volta un piccolo lago; lo sbarramento naturale cedette e l’acqua precipitò irruente prima su Caoria, rovinando parecchie case, riversandosi infine nel Lago Nuovo il cui sbarramento non resse.
Anche in questo caso ci aiutano l cronache dell’epoca: F. Frattini nel suo contributo Lo svuotamento del Lago Nuovo di Caoria incluso nell’Annuario degli Alpinisti Tridentini Anno sociale 1882 – 1883 a pag. 230 scrive: “Il torrente Valcia, che s’era di molto ingrossato in causa delle incessanti pioggie, alzò il livello del lago di parecchi decimetri, aumentando perciò la pressione dell’acqua. Ma un simil fatto avvenne parecchie altre volte e anche in questa sarebbe forse occorso senza danni; il male si fu un’enorme frana caduta al di dentro di Caoria nella località detta I Laghetti, frana composta per lo più di incoerente detrito morenico a grossi elementi.
Dal materiale caduto fu sbarrata la valle, il Valcia fu arrestato e si trasformò temporaneamente in un lago. Però la diga che lo formava si ruppe ben presto, una grandissima colonna d’acqua, che seco trasportava dei colossali pezzi di granito e di porfido, irruppe nella sottoposta valle, e dove questa si allarga presso Caoria, dopo aver asportato dalle fondamenta parecchie case, incominciò a corrodere violentemente la nuova strada di Canale e i fianchi coltivati delle montagne, indi coperse di un alto letto di grossissima ghiaia e di massi di granito e porfido, le vaste praterie coi relativi fienili, che abbellivano il fondo della valle stessa dal villaggio di Caoria fino al lago. Quest’ultimo, il cui livello, come già sopra ho detto, s’era di molto innalzato, al sopravvenire delle nuove ondate crebbe ancor di più, ed il Vanoi, che ne usciva, spinto da una pressione maggiore ed aiutato dalle molte piante che seco conduceva, incominciò a corrodere la diga oppostagli dalla frana del Rio Brutto, diga che, fatta quasi tutta con frammenti assai minuti di terreno schistoso, facilmente cedette.”
Finisce in questo modo la “breve vita del Lago Nuvo” di Canal San Bovo: di esso fino ad alcuni anni fa restava in ricordo sulla facciata di una casa la scritta “Osteria al Lago” ma mano scellerata ha cancellato questa pagina di storia.
Le ripercussioni socio-economiche
Il franamento del Rebrut e le varie alluvioni ad esso collegate hanno conseguenze drammatiche non solo locali: l’importanza di tale evento è testimoniata da alcuni articoli apparsi sul Messaggero Tirolese. In quello pubblicato il 21 luglio 1826 a firma G.U., si racconta come l’effetto dell’intorbidimento delle acque del Vanoi abbia avuto ripercussioni anche sul Brenta e fino al mare Adriatico.
“La quantità di materie che precipitano tuttavia dal Rebrut nel Vanoi è tale, e tanto ne sono impregnate le acque di questo torrente, che non solo giungono ad intorbidare quelle del Cismone, entro del quale si scarica il Vanoi alla Bettola, 4 miglia inferiormente alla frana, ma infettano lo stesso Brenta, che riceve il Cismone 8 miglia più sotto. Tanta debb’essere poi la loro finezza e leggerezza specifica, che quant’unque il Brenta ne depositi abbondantemente per via, pure ne conserva alcuna particella fino allo sbocco nell’Adriatico. Vuolsi che l’acqua non ne sia più potabile, e riesca molto dannosa ai prati che con essa s’irrigassero3”.
Oltre a questo effetto di intorbidimento delle acque non è da dimenticare cosa comportava a quell’epoca un fenomeno alluvionale: nel migliore dei casi il post alluvione equivaleva ad una carestia, nel peggiore all’abbandono delle valli ed all’emigrazione quasi coatta.
La carestia era indotta sia dalle rovine causate ai campi dai vari torrenti in piena, sia dall’impossibilità di conservare all’asciutto le poche derrate salvate delle inondazioni.
L’emigrazione è un fenomeno che colpisce pesantemente le valli di Primiero e del Vanoi da sempre ma, mentre prima delle grandi alluvioni si trattava di una emigrazione stagionale soprattutto nel limitrofo Regno d’Italia ed in Valsugana, dopo la metà dell’Ottocento diventa permanente ed i flussi si dirigono soprattutto oltreoceano anche se una colonia si trasferì in Bosnia. Questo movimento di popolazione ha ripercussioni non marginali sulla società locale, quali la perdita di lavoratori nei periodi più produttivi della loro vita, la diminuzione del valore dei fabbricati e dei terreni a causa della massiccia immissione sul mercato di proprietà che chi emigrava era costretto a vendere per poter pagarsi il biglietto del piroscafo. Questi fenomeni sono legati alla presenza di profittatori a vari livelli che lucravano sia sulle vendite delle proprietà, sia sui viaggi ma anche sui lavori “anticongiunturali” che i comuni mettevano in essere per frenare l’esodo.
Due episodi su tutti spiegano il fenomeno dello sfruttamento delle persone che avveniva in quel periodo: secondo le cronache del tempo era normale che gli appaltatori dei lavori aprissero anche spacci alimentari a cui gli operai dovevano gioco forza appoggiarsi. Dai giornali dell’epoca estrapola questo articolo4 estremamente chiarificatore del meccanismo: “ […] anche l’anno scorso si lavorò per regolarizzare la strada da S. Silvestro al confine.
Ma gli appaltatori del lavoro aprirono magazzini di farine e formaggi; gli uni e gli altri assolutamente di infima qualità; i poveri lavoratori dovevano cascar lì, perché ricevevano il vitto anticipato, e la conclusione? In capo di sei giorni di lavoro non acquistavano da sfamare al settimo la propria famiglia. Per cui non è forse tanto la mancanza di lavoro che fa emigrare non pochi, quanto piuttosto il manco di coscienza in chi vuol guadagnare per ogni verso […]”.
Un secondo fenomeno è quello che si lega alla venuta in valle di “Agenti di Emigrazione” che promettono, chiaramente in cambio di denaro, il viaggio in Argentina o Brasile e, una volta lì giunti, anche una concessione per lo sfruttamento di terreni. La principale agenzia era La Agrucoltora con sede a Buenos Aires: il suo agente, un certo signor Boyd, venne però arrestato e condannato dando il via ad uno scandalo importante a livello provinciale. Altro agente era un certo signor Casale, il cui sistema truffaldino è spiegato in un articolo comparso sulla Voce Cattolica del 1885. “[…] Da qualche tempo fanno capolino ad intervalli regolari anche in questi paesi delle circolari speciali piene di belle parole per indurre le famiglie ad emigrare nel Brasile; e precisamente nella provincia di S. Paolo. Le dette circolari portano in fronte il nome di certo E.Casale, unico incaricato per le spedizioni a S. Paolo, […] Vengo per dirle che ai primi di maggio di quest’anno 10 famiglie di questo Comune, composte in tutto da circa 30 persone, attratte dalle ampie promesse di siffate circolari abbandonarono la Patria e sulle ali del vapore volarono a S. Paolo nel Brasile ad esperimentar miglior sorte. Ma pur troppo la fortuna colà non fece loro buon viso. Legga, sig. Direttore, la lettera qui acchiusa scritta da uno di que tanti mal arrivati, e si sentirà bollire il sangue di sdegno e di indignazione nel vedere come, in mezzo a tanto progresso e a tanta decantata libertà, vi siano ancora a questo mondo di coloro che s’adoperano per render doppiamente schiave le famiglie del nostro paese.”
Come si vede, per pochi che effettivamente andarono in America e fecero fortuna, moltissimi restarono impantanati nelle trappole dei truffatori e persero tutto ciò che avevano.
Per finire, mi piacerebbe pensare che questa storia abbia insegnato alle generazioni cresciute dalla fine dell’Ottocento in poi, che la natura non deve mai essere sottovalutata e che con le acque e con la forza di gravità in montagna più che in pianura, si deve convivere. Ho usato il condizionale in quanto proprio mentre termino questo contributo mi ritornano in mente le parole di scusa del Presidente del Senato alla commemorazione del cinquantenario della frana del Vaiont, parole quasi simili dette dal Presidente della Repubblica in occasione delle frane di Soverato alcuni anni fa … e ciò mi fa pensare che il detto latino “natura docet – la natura insegna” non sia proprio applicabile al genere umano.
Note
- 1 La Valle del Vanoi – Litografia Editrice Saturnia 1992
- 2 Chiamato anche “L’an de la brentana”
- 3 Nicola Negrelli nella nota n° 12 al II Canto della sua opera scrive “La voce della mortalità d’animali riempiva talmente di terrore i popoli dimoranti lunghesso i fiumi annuvolati, che vennero spedite delle Commissioni ex officio, affin di chiarirsene.”
- 4 La Voce Cattolica 11/11/1880 pagg. 2-3 n° 130