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1917: La Grande guerra nel distretto di Primiero

Testo: Adone Bettega | Foto: archivio Adone Bettega, Edoardo Zagonel, Maurizio Dall’Antonio

Prosegue con questo terzo articolo la narrazione degli avvenimenti più significativi che caratterizzarono la Prima guerra mondiale nel Distretto di Primiero.

Seguendo l’ordine cronologico degli eventi è nostra intenzione soffermarci questa volta sul 1917, anno che nell’economia complessiva del conflitto rappresentò un momento cruciale. Dopo quasi trenta mesi di sanguinose battaglie combattute nel cuore d’Europa, nessuna delle parti in lotta era riuscita ad avere il sopravvento e quella che era stata pronosticata come una guerra lampo si era trasformata in un terribile massacro. Un conflitto globale che coinvolse anche milioni di civili, per la prima volta nella storia, costretti all’esodo. 

Nel 1917 ogni nazione si trovò di fronte alla necessità di porre fine ad una contesa che stava cancellando un’intera generazione e sempre più alimentava manifestazioni pubbliche di dissenso e che non mancarono di coinvolgere persino i soldati al fronte, ormai esausti e stanchi di morire inutilmente. Dal punto di vista militare, inoltre, la resa dell’impero russo, devastato dalla rivoluzione bolscevica e l’ingresso in guerra degli USA, intervennero a modificare significativamente gli equilibri delle forze in campo a danno di Germania ed Austria-Ungheria ormai ridotte alla fame dall’embargo posto in essere dall’Intesa sin dall’inizio del conflitto.

Sul fronte del Lagorai le copiose nevicate dell’autunno 1916 avevano obbligato i comandi a sospendere ogni operazione. In Vanoi, dopo aver conquistato la vetta del Cauriol (27 agosto 1916), gli alpini furono costretti ad interrompere la guerra d’aquile ingaggiata con Landesschützen e Jäger bosniaci per il possesso delle posizioni più elevate del Cardinal e della Busa Alta, mentre a bersaglieri e fanti non era rimasto altro che arroccarsi sulle pendici meridionali di cima Cece e ai piedi dell’ampio valico di Valmaggiore. In questo periodo gli italiani disponevano in alta Val Cismon ed in testata di val Travignolo della 17ª divisione, mentre in Vanoi era schierata la neo costituita 56ª divisione (ex Nucleo Ferrari).

Una forza complessiva di circa ventimila uomini che, nonostante le difficoltà del terreno e l’opposizione avversaria, era riuscita ad occupare alcuni capisaldi ben difendibili e a stretto contatto con le truppe imperialregie: cima orientale del Colbricon e monte Cauriol i più significativi. Dal canto loro, le truppe asburgiche erano ancora ben asserragliate sulla linea di cresta delle Fassaner Alpen e l’assetto difensivo non aveva subito particolari mutamenti. In gran parte formate da unità di montagna o comunque da reparti ormai abituati al combattimento in alta quota, esse rappresentavano quanto di meglio il C.S. imperiale era in grado di schierare all’inizio del 1917: la 13ª Gebirgsbrigade (GM von Fischer) fra Valpiana e forcella Cece; la 9ª Gebirgsbrigade (GM Obst. Lercher) fra cima Valon e forcella Lusia e la 179ª Infanteriebrigade (Obst. Covin) fra cima Bocche e la Marmolada.

Rispondendo alle esigenze della guerra di logoramento, entrambi i contendenti iniziarono il loro secondo inverno arroccati su posizioni d’alta quota alle quali nessuno avrebbe mai voluto rinunciare. Pena la possibilità di lasciare in mano avversaria uno spuntone di roccia od un fazzoletto di terra ritenuto strategicamente irrinunciabile e che tanti sacrifici era costato. Ma si trattò di un inverno spaventoso ed eccezionalmente nevoso.

Oltre a porre fine alla fase più cruenta della guerra in questo lembo sperduto del fronte, esso segnò l’esistenza dei soldati che, avversari in battaglia, condivisero la sfida contro una natura che ai loro occhi sembrò crudele e spietata. Le perdite umane furono ingenti e paragonabili a quelle annotate durante le battaglie estive ed autunnali. A queste si sommarono un imprecisato numero di assiderati ed ammalati che dovettero essere allontanati dalla zona di guerra.

Data l’abbondante quantità di neve caduta fra la fine del 1916 e l’inizio del 1917 (si stima sia stato l’inverno più nevoso del secolo), mortale nemico dei combattenti fu ancora una volta la valanga. Nonostante l’esperienza maturata nel marzo 1916, numerosi soldati furono travolti da imponenti masse nevose un po’ ovunque. Malga Ces, forcella Coldosé, val di Sadole, val Svaizera (presso Caoria) e val Ceremana i luoghi dove maggiore fu il numero dei sepolti e dei morti. Le difficoltà di approvvigionare le posizioni di prima linea e quindi a stretto contatto con l’avversario o arroccate su vertiginose guglie rocciose, rappresentarono inoltre un problema nuovo per le unità combattenti che molto spesso si trovarono a dover affrontare violente bufere di neve ed un freddo intensissimo.

Spesso accadde che le avanguardie rimanessero isolate per intere giornate e che le colonne incaricate di soccorrerle si smarrissero nella coltre bianca o precipitassero in fondo ai burroni.

Guerra di mine sul Colbricon.

La rioccupazione della cima occidentale del Colbricon da parte delle unità asburgiche della 9ª Gebirgsbrigade  aveva posto fine alle ambizioni italiane in questo settore. Ciononostante ai bersaglieri del XX battaglione era riuscito di rimanere annidati fra due denti rocciosi a poche decine di metri dall’avversario. Una posizione estremamente scomoda e denominata dagli italiani Monte Carlo, posta a strapiombo sui canaloni che precipitano a sud ma protetta alle spalle dal potente caposaldo della vetta orientale del Colbricon, saldamente in mano alle unità della 17ª divisione.

Per tale ragione, ritenendo difficile e superflua la realizzazione di opere in superficie, i genieri imperialregi avevano avviato fin da subito sul Colbricon rimasto in loro mano un imponente lavoro di fortificazione sotterranea con la perforazione di gallerie e l’apertura di feritoie utili ad osservare o a colpire con armi di vario genere ogni tentativo di attacco nemico.

In questo modo la tanto contesa posizione si sarebbe trasformata in una fortezza inespugnabile.

Tali lavori che avrebbero reso vano ogni ulteriore tentativo di assalto allo scoperto e le abbondanti nevicate che, come si è già visto, iniziarono a cadere ai primi di novembre, indussero il comando italiano a cambiare strategia e a sperimentare, per la prima volta sul Lagorai, un attacco sotterraneo. Una nuova arte militare già impiegata in altri settori (Col di Lana, Lagazuoi e Pasubio). Secondo Mario Ceola, autore di varie opere riguardanti la Prima guerra mondiale, dopo la perdita della seconda cima del Colbricon, gli italiani ricorsero alla guerra di mine progettando la realizzazione di due gallerie: “Una principale che con andamento in parte rettilineo ed in parte elicoidale doveva giungere sotto la posizione nemica dopo 150 metri. Una secondaria, a due rami, che doveva far crollare una guglia rocciosa presidiata dagli austriaci e particolarmente molesta.

Punto di partenza di quella che secondo i progetti doveva essere una delle più potenti mine del fronte dolomitico, era una stretta fenditura collocata sotto l’avamposto italiano di Monte Carlo. Per giungervi era necessario percorrere un impervio sentiero costruito dai genieri italiani lungo il frastagliato pendio meridionale del monte. Il trasporto dei materiali fu invece affidato ad un’ardita funicolare. I lavori ebbero inizio il 3 dicembre 1916 ad opera di alcuni plotoni della 31ª compagnia minatori, comandati dal tenente Decima. 

Essi si concentrarono principalmente sulla perforazione della galleria principale, ragionevolmente denominata Santa Barbara. Successivamente ebbe inizio il perforamento di un tunnel ausiliario volto a raggiungere la nota guglia rocciosa (Dentino del Colbricon), dove gli austriaci avevano posizionato una mitragliatrice ed un punto d’ascolto.

Nonostante ciò il presidio imperialregio non avvertì la minaccia proveniente dal sottosuolo e dopo quattro mesi di scavo in condizioni estremamente complesse, agli uomini del tenente Decima riuscì la conclusione della galleria secondaria con il riempimento delle due camere detonanti previste (otto quintali di esplosivo). Il 12 aprile 1917 un enorme fragore annunciò il successo del tentativo italiano. La cuspide rocciosa occupata dagli asburgici franò a valle scomparendo completamente e seppellendo 1 ufficiale e 18 uomini di truppa, dei quali almeno 4 furono tratti in salvo il giorno successivo. Del “Dentino” oggi non rimane più nulla, solamente una massa informe di detriti sparsi fra la cima occidentale del Colbricon e i due pinnacoli di “Monte Carlo”.

Terminata questa prima fase gli italiani ripresero l’esecuzione della galleria principale con lo scopo di raggiungere rapidamente la cima occidentale del Colbricon.

Di tale attività il comando imperiale iniziò a preoccuparsi soltanto a metà giugno quando il rumore e le vibrazioni causate dai perforatori avversari iniziarono a divenire persistenti e percepiti in superficie dagli uomini incaricati di difendere la posizione, prova inconfutabile che i minatori italiani si erano pericolosamente avvicinati alla vetta.

Quanto temuto trovò tuttavia conferma solamente alla fine di giugno, quando una commissione composta anche da due ingegneri minerari, presentò la sua relazione redatta in seguito all’attività di ascolto eseguita in alcune gallerie ricovero prospicenti l’area di scavo della 31ª compagnia minatori.

Ben poco si sarebbe riusciti a fare, i lavori nemici erano infatti talmente avanzati da rendere quasi sicuramente inutile la perforazione di una galleria di contromina che tuttavia fu iniziata a mano, più per dovere morale che per convinzione. Si optò quindi per un attacco di superficie indirizzato alla conquista dell’avamposto italiano di “Monte Carlo” con lo scopo d’identificare e distruggere l’imbocco della galleria, costringendo l’avversario a rallentare o nella migliore delle ipotesi, a sospendere il lavoro di perforazione. 

Verso le ore 1,30 della notte sull’11 luglio 1917 quindi, cinque plotoni d’assalto al comando del capitano Kiss, dopo una breve preparazione di artiglieria riuscirono ad avvicinarsi alla posizione nemica e ad ingaggiare un violento corpo a corpo con i bersaglieri annidati fra i due denti.

Più volte respinti Landesschützen e fanti sloveni ebbero tuttavia, dopo circa un’ora di accanita lotta, il sopravvento riuscendo ad occupare la linea di cresta principale e le due piccole cime, poco sopra l’ingresso della galleria. Fu in quel momento (verso le 2 di notte) che un colpo di bombarda andò a centrare l’esplosivo approntato per il brillamento della mina. Circa 100 quintali di gelatina (50 casse) collocati presso la stazione d’arrivo della teleferica.

La tremenda esplosione che ne scaturì causò la distruzione della parte sommitale della funicolare ed il danneggiamento dell’ingresso della galleria. 

Ben più alti furono tuttavia i danni causati alle compagnie di riserva che allertate, si stavano dirigendo in vetta lungo i pericolosi sentieri d’accesso e che furono travolte da frane di detriti e pietre.

Dal canto suo, consapevole di aver in qualche modo ottemperato agli ordini ricevuti, il capitano Kiss ordinò verso l’alba il ripiegamento dei suoi uomini che riuscirono a portare con loro 11 prigionieri. Relativamente modeste le perdite del reparto austro-sloveno: 4 morti, fra i quali due ufficiali e 26 feriti

Ne conseguì che il giorno successivo l’intera posizione poté essere rioccupata dai soldati italiani. 

Il bilancio delle perdite fu però molto pesante e testimoniato dai diari storici del XX battaglione bersaglieri e della 31ª compagnia minato

Oltre al ferimento dei comandanti di presidio, tenente Decima (minatori) e maggiore Costa (bersaglieri), le unità della 17ª divisione registrarono ben 41 morti, 20 dispersi e 80 feriti. Il lavoro di scavo dei minatori italiani riprese il 13 luglio con lo stesso ritmo dei giorni precedenti. 

Contemporaneamente proseguirono le operazioni di realizzazione delle gallerie di contromina (nel frattempo divenute due) da parte degli austriaci, verosimilmente confortati dall’esito dell’Azione Kiss

Tale opera, dal 5 luglio posta sotto la responsabilità dell’esperto capitano Gyurkovics (battaglione zappatori N° 12), nonostante le grandi difficoltà di esecuzione causate dalla limitatezza dei materiali utilizzati e dalla frequente mancanza del carburante per il funzionamento dei compressori, ottenne tuttavia dei risultati che il comando della 9ª Gebirgsbrigade non si sarebbe certamente atteso alla vigilia dell’epica lotta sotterranea per il possesso del Colbricon.

Agli albori del giorno, uscito dal caposaldo di Monte Carlo, un piccolo nucleo di fanti piumati tentò inizialmente di avanzare fra le rocce sfaldate del pendio soprastante l’ampio valico della Grünen Sattel ma colpito d’infilata dal fuoco delle mitragliatrici del Piccolo Colbricon, fu costretto a desistere. 

Successivamente una seconda squadra, con molto coraggio, s’infilò nella galleria di mina con il proposito da raggiungere il sito dell’esplosione e di sbucare alle spalle del nemico percorrendo quanto del pozzo avversario era presumibilmente rimasto integro. Un miraggio destinato a svanire dal momento che la Santa Barbara era completamente invasa dai gas venefici scaturiti dalla recente detonazione. L’offensiva fu momentaneamente sospesa e ai minatori fu ordinato di riprendere il lavoro di scavo all’interno del tunnel danneggiato dall’esplosione del 16 luglio.

Ancora una volta le unità imperialregie riuscirono ad avere la meglio ed a frenare le aspirazioni della 17ª divisione. 

Riordinati i reparti in linea il comando della 9ª Gebirgsbrigade incaricò la 6ª compagnia del battaglione zappatori N° 6 di eseguire i necessari lavori di ripristino delle difese danneggiate dalle due mine e la messa in opera di un ben organizzato sistema di monitoraggio e di ascolto. 

Il timore di nuovi attacchi sotterranei era molto forte. Furono progettate anche due gallerie che penetrando nel cuore della montagna avrebbero dovuto intercettare eventuali scavi del nemico le cui ambizioni, alla fine di agosto, non erano ancora del tutto ben chiare.

Il 14 luglio la galleria d’attacco italiana era completata però, nel timore più che giustificato che il nemico fosse in grado di anticipare la propria esplosione vanificando l’opera sin qui realizzata, il comando della 17ª divisione acconsentì al caricamento di una camera esplosiva posta immediatamente sotto uno dei pozzi austriaci la cui posizione era stata con precisione identificata dalle squadre d’ascolto, più o meno laddove era avvenuta la prima deflagrazione. Si rinunciava così a proseguire in direzione della vetta e al piano di distruzione totale della parte sommitale del monte.

Alle 3 di notte del 16 luglio, con un fragore assordante, avveniva lo scoppio della seconda mina italiana. L’esplosione di 2 tonnellate di gelatina provocò la morte dei 25 fanti e zappatori del presidio asburgico addetti alla perforazione del pozzo di contromina i quali  rimasero stritolati fra i detriti che in gran quantità franarono nei ghiaioni sottostanti. 

Parte delle opere sotterranee ed accessorie del Colbricon austriaco scomparvero o furono gravemente danneggiate ma complessivamente la capacità difensiva del campo trincerato di vetta non subì particolari danni. 

Nonostante ciò i bersaglieri si lanciarono all’assalto confidando nella ridotta capacità di reazione degli austriaci e degli sloveni, verosimilmente storditi e confusi dalla potente esplosione e dai fumi tossici che ne scaturirono. 

Piani che in realtà furono solamente abbozzati tant’è che uno soltanto dei due tunnel fu costruito fino a raggiungere una profondità di 35 metri. Provvedimenti che tuttavia non mancarono d’insospettire gli attenti osservatori italiani nascosti fra le rocce a poche decine di metri di distanza od in vigile ascolto con i geofoni. Il comando di settore pianificò pertanto un’ennesima mina che avrebbe dovuto invalidare definitivamente ogni possibile rischio. La realizzazione del nuovo piano ebbe inizio già nei primi giorni di agosto ad opera dell’ormai nota 31ª compagnia minatori già orientata al ripristino della “Santa Barbara”. 

Scrive in merito il diario storico del XX battaglione bersaglieri: “Il nemico da tempo eseguiva nella 2ª cima dei  lavori di mina. Ora essendosi molto avvicinato alle nostre posizioni, si è deciso di far brillare una contromina di circa una tonnellata di gelatina, in modo da distruggere la galleria nemica; per raggiungere tale scopo è stata scavata una galleria scendente a pozzo sotto l’ex dentino. Il brillamento ha avuto luogo alle ore 17. Sembra che lo scopo sia stato raggiunto completamente perché non si sono più uditi lavori sospetti.

Con la deflagrazione del 19 settembre 1917 terminava la cruenta lotta sotterranea per il possesso del Colbricon occidentale che tuttavia ebbe un epilogo quasi ignorato dalla letteratura sul versante settentrionale del Piccolo Colbricon, presso quella che all’epoca era nota sulla cartografia del regio esercito come Cima Stradon, oggi Buse dell’Oro.

La mina italiana alle Buse dell’Oro.

Qui, lo schieramento di asburgici ed italiani, era il frutto delle cruente battaglie avvenute fra l’estate e l’autunno del 1916. Nel mese di maggio era inoltre quasi riuscita alla 9ª Gebirgsbrigade un’azione per la distruzione di alcuni lavori di perforazione eseguiti dal XIV battaglione del genio italiano, in corso d’opera per la costruzione di una lunga galleria confluente in un panoramico osservatorio dominante il Dossaccio. Rumori di trivellazione e microesplosioni, visti i tempi, furono scambiate dagli austro-ungarici come attività volte allo scavo di una galleria d’attacco contro le proprie posizioni laddove il pendio boscoso inizia a precipitare verso la Val Travignolo.

Si trattò di un’operazione ad ampio raggio e che coinvolse il IV/84° alle Buse dell’Oro, il battaglione ciclisti del magg. Schönner in val Travignolo ed il IV/12° su cima Stradon. Il piano che fu elaborato nei minimi dettagli, utilizzando anche l’osservazione aerea per l’identificazione delle più recondite posizioni avversarie di artiglieria, i ricoveri e l’entità della fanteria in linea, si svolse nella notte del 22 maggio. 

Verso le tre, favoriti dal buio e dall’inefficienza degli sbarramenti di reticolato, adagiati sulla neve, alcuni nuclei di soldati in divisa bianca armati di pugnale e bombe a mano, aggredirono improvvisamente le posizioni avanzate della Brigata Calabria. Ciò avvenne all’incirca lungo tutto il fronte d’attacco, però l’infiltrazione degli austriaci fu più efficacie dove erano in corso i lavori di trivellazione dell’osservatorio. 

Colti di sorpresa minatori e zappatori furono catturati e con essi lunghi tratti delle trincee avanzate italiane. Dopo alcune ore però la pressione delle pattuglie imperiali si andò esaurendo e i fanti italiani iniziarono a contrattaccare all’arma bianca. 

Ne scaturì un violentissimo corpo a corpo che in poco tempo riempì lunghi tratti di trincee e camminamenti di feriti e di cadaveri. Verso le ore 12 del 22 maggio la Brigata Calabria era riuscita a riprendersi le posizioni abbandonate poche ore prima e, aspetto forse più significativo, ad impedire la distruzione dell’osservatorio che durante l’estate del 1917 fu completato.

Ma a che prezzo? In base ai documenti della 17ª divisione, le perdite austriache ammontarono a una settantina di prigionieri ed a più di un centinaio di morti contati sul campo; di questi, tanti, ebbero sepoltura nei cimiteri italiani, altri rimasero fra le opposte linee. 

Molto più grandi furono le perdite della Brigata Calabria con ben 556 uomini. Di questi 15 erano ufficiali (3 morti, 8 feriti e 4 dispersi), e 541 soldati di truppa (31 morti, 285 feriti e 225 dispersi).

Fu un’operazione completamente inutile e sanguinosa, determinata più che altro dall’angoscia dell’esercito imperialregio per il pericolo proveniente dal sottosuolo. 

Sfida sotterranea che tuttavia si sarebbe manifestata anche alle Buse dell’Oro poco dopo. In questo ristretto lembo di fronte, il regio esercito era infatti riuscito ad impadronirsi della quota 2150, un dosso roccioso situato molto più in basso rispetto alle trincee di prima linea austro-ungariche edificate sull’ampia dorsale che risale in direzione del Piccolo Colbricon. 

Nascosto alla vista delle sentinelle grigiazzurre il pendio digradante in direzione del caposaldo di quota 2150 (denominato dagli austriaci Baumkuppe) permetteva agli italiani di approssimarsi praticamente indisturbati alle trincee avversarie.

Questo a danno dei difensori che in più occasioni furono fatti segno dal lancio di granate a mano o da qualche ben aggiustata fucilata. Alla fine di giugno 1917, approfittando della posizione estremamente favorevole, il comando della 17ª divisione approvò la realizzazione di una mina complementare a quella del Colbricon. 

Del lavoro furono incaricati 19 uomini della 31ª compagnia minatori che avrebbero dovuto predisporre una camera di scoppio alle Buse dell’Oro e precisamente sotto quota 2187, cardine del sistema difensivo austro-ungarico in questo settore. L’esplosione sarebbe dovuta avvenire una decina di minuti prima dell’ora prevista per lo scoppio della seconda cima del Colbricon, nonostante le forti perplessità sui tempi di esecuzione espresse dal tenente Gazzini, comandante dei minatori. La conferma di tali dubbi sarebbe giunta a momento debito. Il lavoro, iniziato il 28 giugno 1917 e proseguito senza particolari impedimenti con un avanzamento medio giornaliero di un metro e mezzo, fu avvertito dai sospettosi geofonisti imperialregi solamente alla fine di luglio anche se si dovette attendere il 23 agosto per la  conferma ufficiale.

Velocemente furono avviate le procedure per la realizzazione di una galleria e di un pozzo (Fuchsloch) di contromina. Ostacolati da imprevisti di ogni genere i lavori avanzarono a fasi alterne sino al 10 ottobre, quando alle otto e un quarto di sera un violento boato fece tremare l’intera cupola occupata dalla 20ª compagnia del IV/3° Landesschützen, reparto che proprio in quei giorni aveva sostituito i fanti del IV/84° alle Buse dell’Oro.

olamente all’alba del giorno dopo i difensori di quota 2187 ebbero modo di verificare l’accaduto. Sepolto nel pozzo giaceva il corpo senza vita dell’unico zappatore in grado di lavorarci, ucciso da alcune pietre rovinategli addosso in seguito all’esplosione. Dinanzi alle trincee dei Landesschützen una profonda e lunga fenditura nel terreno comprovava l’avvenuto brillamento della mina, ma nello stesso tempo dimostrava che qualche cosa era andato storto agli italiani. Ma cosa? Purtroppo non vi sono a tutt’oggi documenti chiarificatori in tal senso, salvo un breve testo scritto sul diario storico della Brigata Calabria che tuttavia non va oltre una semplice descrizione dei fatti. Successivamente Piccolo Colbricon e Buse dell’Oro sarebbero ritornati nella calma più assoluta, prologo a quanto sarebbe accaduto un paio di settimane più tardi.

L’abbandono delle “Alpi di Fassa”. Il ritorno dell’esercito austro-ungarico a Primiero.

Alla fine di ottobre del 1917 si svolse sul fronte giulio la dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio conosciuta in Italia come Battaglia di Caporetto. In pochi giorni di scontro, le unità austro-germaniche riuscirono a forzare le mal disposte difese della 2ª armata italiana fra  Plezzo e Tolmino, causando la ritirata al Piave e al Monte Grappa di gran parte dell’esercito al comando di Luigi Cadorna. Da Bocche al Colbricon, da cima Valcigolera alla Busa Alta e dal Cauriol alla Cima d’Asta, i militari italiani iniziarono nella notte fra il 4 e il 5 novembre la triste opera di smantellamento delle posizioni raggiunte in trenta mesi di pesanti sacrifici. 

Depositi di munizioni e magazzini furono dati alle fiamme, derrate alimentari distrutte e ogni via di comunicazione, dove possibile, danneggiata. Il giorno seguente il IV gruppo alpini dalla Valle del Vanoi si posizionò in modo tale da consentire il ripiegamento in valle del Cismon dell’ala sinistra della 17ª divisione (battaglione alpini Val Maira, Brigata Calabria, Brigata Basilicata e 3° bersaglieri). All’alba del 6 novembre le unità imperiali e regie schierate sul Lagorai orientale iniziarono il loro movimento in avanti. Secondo i piani elaborati dal comando del Gruppo FML Conrad, tali reparti avrebbero dovuto attraversare con due distinte colonne la conca di Primiero e la valle del Vanoi per raggiungere il più rapidamente possibile Fonzaso e le pendici del Monte Grappa. 

I primi segnali di un certo nervosismo nei soldati italiani stanziati a Primiero iniziarono a manifestarsi all’inizio di novembre, quando le notizie di un possibile abbandono del distretto da parte delle regie truppe cominciarono a farsi sempre più insistenti. Ignara degli eventi la popolazione rimasta in valle non poté far altro che assistere in silenzio.

Nei giorni seguenti, in un clima di assoluta confusione le autorità militari italiane impartiranno le necessarie disposizioni per la chiusura degli uffici pubblici e per la partenza, prima degli impiegati civili e delle loro famiglie, successivamente delle truppe. La fuga dell’esercito fu precipitosa. Migliaia di soldati, carriaggi, animali da soma, artiglieria e servizi, transitarono nei centri abitati per poi scomparire nella stretta gola dello Schener. 

Un’immensa massa d’uomini e mezzi accompagnati alle spalle dai terribili boati delle esplosioni e dal bagliore degli incendi. Nulla doveva esser lasciato integro al nemico inseguitore. A celeri plotoni di retroguardia, composti da alpini e bersaglieri, fu affidato l’incarico di proteggere il ripiegamento, ingaggiando battaglia se necessario ma esclusivamente per consentire al grosso delle truppe di svincolarsi.  

Le avanguardie asburgiche riuscirono quindi già il primo giorno a raggiungere indisturbate Paneveggio, San Martino di Castrozza e Valmesta. 

Il 6 novembre, convinto di poter proseguire lungo la dorsale della Redasega e raggiungere Gobbera, il plotone esploratori del IV/84° fanteria si trovò a forcella Calaita la strada sbarrata dal 7° reparto d’assalto della 56ª divisione con il quale ingaggiò una violenta colluttazione all’arma bianca. Vinta la resistenza dei bersaglieri il giorno seguente l’unità asburgica riuscì ad avanzare ancora e con grandi difficoltò dovute alle caratteristiche del terreno, riuscì ad attestarsi ad Imèr, mentre l’intero battaglione raggiunse Fiera di Primiero.

L’8 novembre tuttavia, l’avanzata dei reparti imperiali fu arrestata dal tiro delle batterie italiane collocate sui monti Totoga e Vederna che iniziarono a colpire i soldati austro-ungarici ed i centri abitati di Imèr e Mezzano. Terrorizzata, la popolazione civile fu costretta a cercare riparo negli interrati o sui masi. Furono ore di vero panico. Nella notte del 10 novembre, fortunatamente, due compagnie del IV/84° riuscirono a circondare da est il monte Vederna e quando il presidio di vetta e gli artiglieri se ne accorsero, non poterono far altro che darsi alla fuga dopo aver danneggiato i vecchi cannoni ormai inutilizzabili. Di comune accordo le retroguardie della 56ª divisione abbandonarono anche le posizioni dominanti del monte Remitte e del monte Totoga, ripiegando in direzione di Feltre e Fonzaso. Il distretto di Primiero, dopo due anni e mezzo di guerra era ritornato austriaco. Nei molti e ben forniti magazzini abbandonati dagli italiani, le unità imperialregie trovarono di che sfamarsi per mesi. Ciononostante non pochi furono gli atti di saccheggio nelle case disabitate o chiuse, compiute da soldati privi di scrupoli e di regole.

Accolte con ridondanti discorsi: “ (…) la popolazione di questo Comune a mezzo dei suoi rappresentanti è ben lieta di poter darVi il benvenuto e porgervi di cuore il saluto sincero e doveroso quale si addice ad un popolo fedele all’antica ed amata Patria.”, e dall’esposizione degli antichi fregi asburgici, le autorità imperiali e regie non seppero di certo dare le risposte che la popolazione si aspettava. “Il primo e più impellente bisogno è senz’altro quello dell’approvvigionamento dei viveri, almeno dei generi più necessari alla vita, quali sarebbero: farina da polenta, sale, zucchero, petrolio ecc.…
Troppa la fame e la disperazione alla quale l’esercito austro-ungarico era da molto tempo costretto. Più volte ai municipi giunsero le richieste di grazia dei contadini costretti a rimediare in qualche modo ai danni subiti nei campi dal passaggio delle truppe: “Questa grazia consiste nell’ordinare alle truppe di passaggio e di stazione in questa poverissima valle di rispettare la proprietà privata e di lasciar libera la popolazione di poter coltivare i suoi fondi e raccogliere il frutto dei suoi sudori così tanto necessario all’esistenza in questi tempi difficili.

L’autunno del 1917 aveva così termine la fase bellica del conflitto italo-austriaco nel Distretto di Primiero. La guerra comunque non ebbe fine e anche se il fronte si allontanò dalle amene vallate, molte ferite rimasero ancora aperte. Nel terreno, solcato da trincee, strade, opere militari e sfregiato da bombardamenti e battaglie. Nelle meravigliose foreste, danneggiate dagli scoppi delle granate e dagli incendi. Nei cuori delle persone, che per molto ancora avrebbero dovuto attendere i loro cari arruolati nell’esercito asburgico o piangere chi non avrebbe più fatto ritorno.

Aquile Magazine