Vivere in Montagna

Oro Verde

Testo: Maria Cristina Bettega

Guai toccare le Vederne agli Almeroi!
È di solito così che in senso buono, gli abitanti degli altri paesi di Primiero scherzano sulla gente di Imèr. Ma se la Vederna o le Vederne, che dir si voglia, sono così care alla popolazione un motivo c’è e la sua origine risale a qualche secolo fa.

Situata alle pendici del monte Pavione, questa grande estensione di terreno era un tempo risorsa fondamentale per la sussistenza delle famiglie di Imèr. La maggior parte del territorio era costituita da prati destinati allo sfalcio, da pascoli per mucche e capre e da ridotte porzioni di bosco necessario per il legname. Le Vederne appartengono oggi al Consorzio, che ne possiede 244 ettari ma non fu sempre così: da tempo immemorabile e fino al 1829 l’intero territorio era di proprietà del Vescovo di Feltre che insieme ad altre località nel Primiero e nel Vanoi, cedeva appezzamenti di terreno a privati in cambio di un esborso in denaro o in natura. In origine erano famiglie di Zorzoi ad avvalersi delle risorse della Vederna. Nel 1718 il Vescovo di Feltre decise di concedere la Vederna come feudo al nobile Giovanni Maria Bilesimo di Fonzaso. 

Il 2 dicembre del 1742, 63 capifamiglia del paese di Imèr mandarono due rappresentanti nella vicina Fonzaso per contrattare la Vederna con la famiglia Bilesimo e dieci giorni dopo a questo incontro,

 venne firmato un contratto con cui i nobili di Fonzaso concedevano ai 63 capifamiglia a titolo di livello perpetuo rinnovabile ogni 29 anni e contro pagamento di un canone annuo di 600 lire, il territorio della Vederna. A seguito di questo, i 63 capofamiglia detti “vicini” si costituirono in una associazione denominata “Consorzio dell’Alpe Vederna” dandosi delle regole tramandate di generazione in generazione e valide ancora oggi.

A capo del Consorzio vi era un presidente eletto direttamente dall’assemblea dei “vicini” ogni cinque anni. Ogni dieci anni gli appezzamenti di terreno dedicati alla fienagione (“la part”) venivano divisi in tante particelle in numero proporzionale ai consorti più due e quindi ridistribuite a sorte. Le due “part” in più erano destinate al presidente e segretario come compenso per le loro prestazioni; capitava però che alcune particelle restassero libere perché magari qualche consorte era all’estero, esse quindi venivano messe “all’incant” ovvero all’asta e quindi solo il miglior offerente se le poteva aggiudicare. I consorti che non avevano figli, compiuti i 70 anni potevano scegliere liberamente “la part” da lavorare. Ogni consorte pagava al Consorzio una quota annuale di 2.500 lire (“la steora”) per lavorare la propria porzione di terreno, questa suddivisione avveniva solo tra i figli maschi che costituivano un nucleo familiare indipendente e che discendevano dai 63 consorti originari. Da questo diritto venivano escluse per consuetudine le donne, proprio come accadeva nella regola del maso chiuso che vigeva in Tirolo probabilmente già in epoca medievale.

A partire dal 1780, le superfici boschive delle Vederne furono oggetto di abbattimento e carbonizzazione di legname destinato all’alimentazione dei forni fusori di Transacqua. Questo permise di ottenere nuovi spazi destinati a diventare prati per sfalcio, l’attività di carbonizzazione continuò fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale garantendo la commercializzazione di carbone fino a Padova e Treviso.

Nel tempo i “vicini” apportarono modifiche e migliorie ai terreni acquistati costruendo anche una strada che dal monte scendeva verso il paese di Imèr; nel 1750 Nicolò Negrelli (nonno del famoso ingegnere Luigi Negrelli a cui si deve la progettazione del Canale di Suez) ideò il ponte del S-ciós per facilitare il rientro del bestiame ed il trasporto del fieno a valle. In autunno ed in inverno i consorti prestavano lavoro “a piòbec” (cioè gratuitamente) per la costruzione e la manutenzione di strade e ponti, per le migliorie dei fondi, la salvaguardia dei confini: queste sono solo alcune delle tante occupazioni che emergono leggendo i vecchi documenti del Consorzio. Essi sono una vera testimonianza di cooperazione e solidarietà, nello statuto infatti si scrive: “Non abbiasi giammai a vedere alcuno di questi soci ridotto in estrema miseria o povertà” quindi se un membro del Consorzio si fosse trovato in difficoltà tutti sarebbero stati tenuti ad aiutarlo, valido esempio anche per i giorni nostri.

In Vederna si saliva già la primavera per controllare “la part”, a fine giugno le famiglie di Imèr si trasferivano lassù e ci rimanevano fino alla fine dello sfalcio, gli uomini provvedevano a tagliare l’erba (i siegadori) mentre le donne (le restelere) la facevano seccare al sole e alla sera la raccoglievano in covoni (i mari).

I bambini più grandi, armati di “botàze” (piccoli recipienti di legno) percorrevano ogni giorno distanze notevoli per prelevare acqua dalle fonti e portarle ai famigliari impegnati nel lavoro. Al sabato sera la Vederna si spopolava: tutti scendevano in paese per partecipare alla Santa Messa della domenica e fare scorta di cibo per la settimana avvenire, già la domenica sera la gente risaliva al monte per essere pronta alle prime luci dell’alba del lunedì a riprendere il lavoro. Nel tardo autunno ed in inverno gli uomini salivano con la slitta ed i ramponi ai piedi per prendere foraggio e legname da trasportare a valle.

In queste immagini si può osservare com’è cambiato nel tempo il territorio dell’Alpe Vederna. Negli anni Cinquanta il pascolo ed i prati comprendevano gran parte del territorio; dalla seconda metà del XX secolo causa il maggior benessere si assiste all’abbandono di vaste zone di pascolo e sfalcio. L’economia dell’intera valle del Primiero inizia a gravitare attorno al turismo ed è proprio in questa prospettiva di sviluppo che negli anni Sessanta venne preso in considerazione il progetto di una funivia che avrebbe dovuto collegare Imèr con la punta dell’Alpe Vederna, proposta che, nonostante ottenne l’approvazione di gran parte dei consorti, non ebbe risvolti.

Aquile Magazine