Cover Stories, Le guide Storiche

Antonio Tavernaro L’Aquila Silenziosa

Testo: Mirco Gasparetto | Foto: a cura di Narci Simion - Guida Alpina

Frammenti dalla vita di una guida alpina

“La giornata era calda e afosa; il tempo passò piacevolmente, nonostante la mancanza di qualsiasi veduta.
Tavernaro ci intrattenne con alcuni spiritosi aneddoti sulle sue avventure da cacciatore di camosci fra selvagge valli e pareti delle sue cime natìe…
Ci narrò pure qualche gustoso episodio di contrabbando e divertenti descrizioni di varie astuzie e travestimenti adottati per ingannare le guardie.
Per parecchie di queste, ebbi il sospetto si trattasse di nostalgici ricordi personali.”

Ludwig Norman-Neruda – Cima Wilma, 6 luglio 1893

Del “celebre quartetto” così ben definito da Theodor Wundt già nel 1892, ovvero l’originario gruppo di guide che avviò con decisione la pratica alpinistica sul massiccio delle Pale, oggi sono ben note le figure di Giuseppe Zecchini, Michele Bettega e Bortolo Zagonel (v. Aquile 1-2014, 2-2015, 3-2016). Resta ancora da dire, quindi, dell’ultimo grande personaggio del “quartetto” divulgato dall’esperto alpinista, fotografo e scrittore tedesco: la guida alpina Antonio Tavernaro.

Per iniziare, vale senz’altro la pena proporre quanto lo stesso Wundt riportò nel suo essenziale album: “Nato nel 1862, guida dopo il 1891.

La sua più importante salita è quella della Rosetta dalla parte occidentale. La sua vita è del tutto particolare. Nato a Primiero andò assieme ai genitori in Germania; per alcuni anni fece il fattorino a Bruchsal.

Appassionato cacciatore di camosci, girava per i monti, e questa è la causa che ne fece di lui una guida. È un uomo intelligente e di briosa compagnia. Testimonianza del suo coraggio e delle sue buone qualità di arrampicatore lo dimostra il fatto che, nel corso di preparazione per diventare guida, riuscì a salire, senza conoscere la via, le difficili punte del Sass Maor. Inoltre sa servirsi molto bene della lingua tedesca”.

A Zurigo il suo principale volle che imparasse la scultura, ma circostanze finanziarie lo costrinsero a ritornare in patria.

Nonostante le indicazioni trasmesse da Wundt, il recupero del profilo di guida di Antonio Tavernaro, a differenza degli altri tre famosi colleghi, non risulta propriamente scontato. Oltre alla prematura scomparsa, avvenuta a quarantacinque anni, è molto probabile che sia proprio l’emigrazione a nord delle Alpi – situazione che visse nuovamente con l’avvento nel Novecento – il motivo di un’annosa assenza di notizie inerenti la sua attività alpinistica.

Antonio Tavernaro nasce a Siror, uno degli otto comuni del Primiero Welschtirol, il 19 maggio 1862, da Giuseppe e Agata Taufer. Il patronimico è quello di buscaròl, ovvero boscaiolo, che indica in modo eloquente la professione d’origine della famiglia; un duro lavoro che anche “Tonìn”, com’era comunemente chiamato, praticherà alternandolo alle attività di garzone, carpentiere, oste e soprattutto di guida alpina. Nonostante quanto scriva di lui il Wundt, pare che già nell’agosto del 1886 Tavernaro stesse esercitando il mestiere di guida, data una voce che lo colloca insieme all’alpinista e matematico viennese Adolf Migotti sul versante sud-ovest di Cima Tosa, in Brenta, a scoprire un importante itinerario tuttora alternativo alla via normale di salita e riconosciuto esclusivamente come “via Migotti”.

Oltre tale informazione, Antonio Tavernaro sembra essere ufficialmente autorizzato al ruolo di guida dal 1891. Certamente lo è il 6 luglio di quell’anno, quando il primierotto Vittorino Toffol, albergatore a San Martino ed appassionato alpinista, lascia scritto sul libro del rifugio che la Società degli Alpinisti Tridentini aveva edificato sull’altopiano delle Pale: “Reduce dal Cimone della Pala; salita la prima in quest’anno, e mercé la bravura della famosa guida Antonio Tavernaro, che non posso esimere di raccomandarlo a chiunque”. Dunque Tavernaro godeva già allora di buona fama, lasciando intendere ulteriori, precedenti esperienze. Che poi egli fosse una guida quantomeno intraprendente, è confermato poche settimane più tardi dallo svevo Renner, che della loro prima salita alla Croda della Pala, appunta… “Il 13 settembre partii da San Martino in compagnia della guida Antonio Tavernaro di Primiero con il progetto di salire la via aperta dal Dr. Darmstädter sul Cimone. Durante la pausa per la colazione al Passo della Corona [Passo Bettega], il Tavernaro mi propose di scalare, anziché il Cimone, la quota più alta della cresta che unisce il Cimone con la Rosetta, che secondo lui non era mai stata salita”.

È proprio con tale scalata che la guida di Siror apre l’elenco ufficiale delle sue prime ascensioni, ma non sarà per questo che il suo nome, dalla stagione successiva, inizierà a circolare con autorevolezza nella cerchia alpinistica europea. E neppure per il contestuale esordio con Ludwig Norman – Neruda (Stoccolma, 1864 – Punta delle Cinque Dita, 1898), cliente virtuoso che nella sua pur breve esperienza inciderà profondamente il frangente storico dell’alpinismo di fine Ottocento.

Le nuove attenzioni maturano il 20 settembre 1892, quando Antonio Tavernaro con Bortolo Zagonel e con il medico distrettuale Arturo Crescini, sale la cosiddetta “parete anteriore” della Cima Rosetta, ovvero il versante che s’alza verticale sull’abitato di San Martino.

La difficile scalata denota canoni estetici e una filosofia d’approccio al tipo d’arrampicata decisamente innovativi, specialmente se si tiene conto che i tre attaccarono la parete ormai a metà giornata, dopo una sfortunata battuta di caccia.

Più anziano di Zagonel di sei anni, Tavernaro sembra già riconoscere le spiccate doti arrampicatorie del collega, tanto che lo seguirà come “seconda guida” in molte delle sue più importanti imprese. Oltreché la vincente scalata alla Rosetta, vero must alpinistico che attrarrà i migliori per più di qualche anno, ancora a settembre del 1892 lo ritroviamo pure nella lunga cordata Bettega – Zagonel – Zecchini – Crescini in un futuristico tentativo alla parete sud-ovest del Cimone, mentre nell’estate successiva, il 2 agosto 1893, è con Zagonel e con Willy Rickmer – Rickmers sulla vetta della difficile Torre Winkler, in Vajolet. È, questa, la quarta ascensione della torre ed è necessario rimarcare che solo un’unica guida aveva, al tempo, condotto il proprio cliente in vetta. Era successo appena un mese prima, e si trattava del fuoriclasse ampezzano Antonio Dimai. L’importante scalata verrà peraltro ripetuta dalle stesse due guide di Primiero anche nell’estate del 1894. Questa volta però l’ambizioso cliente, membro della SAT, è un rappresentante della borghesia irredentista di Trento, Carlo Garbari, con cui Tavernaro, qualche anno dopo, stringerà un patto.

Individualmente, Antonio Tavernaro iniziò a conseguire riconosciuti successi dal 1893, stessa stagione della salita alla Winkler. Poche settimane prima, infatti, si distinse per la prima ascensione assoluta della massiccia vetta che affianca la Cima Canali. Il 6 luglio la guida di Siror vi aveva accompagnato due novelli sposi, Ludwig Norman-Neruda e May Peyton, battezzandola “Cima Wilma”, ovvero con il nome della neonata figlia della coppia di alpinisti. La salita, tuttora non banale, presentò un ostico passaggio nel bel mezzo di una placca, che costrinse Tavernaro a farsi aiutare dal ben più alto Norman-Neruda per afferrare l’appiglio risolutivo. Negli appunti inerenti le sue scalate, pubblicati dalla moglie appena qualche anno dopo, Neruda ricorda di come fu facilitato dalla sua statura, mentre la consorte evitò il passaggio con stile, arrampicando in una fessura vicina.

L’alpinista d’origine svedese non tralasciò d’appuntare neppure ciò che successe in discesa, quando, con lo scopo di memorizzare il “malpasso” per le future ripetizioni… “proprio sopra il difficile passaggio, Tavernaro trovò una naturale e affidabile clessidra rocciosa, attraverso la quale passò un’estremità della sua corda per poi calarsi. Una volta raggiunta la base della placca, egli ripetutamente arrampicò su e giù finché fu in grado di salire senza alcun aiuto. Non so per quanto tempo avrebbe ancora continuato tale ginnastica, se non ci fosse stata l’interruzione d’uno scroscio di pioggia”. La peculiare prima salita di Cima Wilma s’inserisce in un contesto che aveva visto i coniugi Neruda, in quei giorni, gironzolare su molte altre vette delle Pale, dopo aver preso alloggio all’Hotel des Dolomites di Hermann Panzer.

Ancora con Ludwig Norman-Neruda, il 26 agosto Tavernaro vince l’appuntito Sass Maòr direttamente da nord, aprendo il primo itinerario che si articola interamente sul versante settentrionale, evitando di deviare sulla forcella afferente la Cima della Madonna. Da quelle parti c’era passato anche Antonio Dimai con Leon Treptow quasi un mese prima, ma aveva puntato al citato intaglio spezzando così la linearità dell’itinerario. Rincorrendo la nomea di Dimai, la via fu ripresa già il 13 settembre dall’olandese Jeanne Immink, che insieme ad un altro outsider del periodo, la guida di Sesto Sepp Innerkofler, dichiarò pure l’apertura di una nuova variante. In realtà, anche su quegli appigli c’era già passato “Tonìn” Tavernaro: esattamente due giorni prima vi aveva condotto Leopold Brunner e soprattutto Heinrich Hess, uomo forte del DOeAV nonché autore dell’enciclopedica Hochtourist in den Ostalpen, vera “bibbia” per ogni alpinista germanico.

Del resto, tra le massime vette dominanti la Val Cismon, quella del Sass Maòr sembra essere la più battuta da Tavernaro, tanto che pare ne frequentasse i suoi accessi ben prima di divenire guida autorizzata.

Oltre le lodi divulgate da Wundt nel 1892, fu proprio il sodalizio con Ludwig Norman-Neruda, alpinista nato a Stoccolma e cresciuto tra Brno, Vienna, Londra e Asolo, a caratterizzare storicamente il profilo alpinistico di Tavernaro. Il primo incontro con il perspicace cosmopolita riconduce all’estate del 1892 quando, il 17 luglio, i due salgono al Rifugio della Rosetta. Teorizzando appuntamenti già concordati piuttosto che fortuite coincidenze, qui incontrano un’altra vecchia volpe del pionierismo dolomitico, Demeter Diamantidi (Vienna, 1839-1893), che con le guide Giuseppe Zecchini e Peter Kotter, aveva appena salito il Dente del Cimone.

Il giorno successivo, la comitiva al gran completo si dirigerà verso il Sasso di Campo, cima ancora inaccessa che s’allunga sulla ramificazione meridionale delle Pale. Quasi come in un gioco di rincorse, i due gruppi giungeranno in vetta tramite vie diverse, e qui si riuniranno per poi discenderne con un altro originale itinerario. Se nei giorni successivi Diamantidi continuerà a mietere una sequela di nuove ascensioni perlustrando la selvaggia catena meridionale delle Pale, Tavernaro e Norman-Neruda torneranno invece a San Martino. Altre mete avrebbero nutrito le loro ambizioni.

È il 12 agosto 1897, ed è il ventisettenne Carlo Garbari (Trento, 1869-1937) ad informare su cosa successe quel giorno intorno al Campanile Basso di Brenta, elegante obelisco dolomitico alto trecento metri che, naturalmente, stimolava più di qualche appetito alpinistico: “Indossammo i pedulli, e le scarpe ed ogni altro superfluo venne depositato in un antro vicino.

Il Tavernaro sciolse la corda, se la legò per primo, indi la cinsi io, per ultimo il Nino, e silenzioso, ben conscio delle difficoltà alle quali andava incontro, il bravo Tavernaro si mise all’opera. Colla sua destrezza scomparve in pochi istanti in un profondo camino che corre proprio sullo spigolo Est del Campanile (…). 

Ora stavamo di fronte ad una liscia parete colla stratificazione inclinata verso di noi, in modo che i rari e minuti appigli non offrivano alcun sostegno alla mano. Altra scelta non v’era, o superarla o retrocedere.

Il Tavernaro tentò di salire per primo, si alzò sopra di noi due o tre metri, indi dovette, scoraggiato, desistere, causa la sua piccola statura (come diceva lui)”. La cronaca prosegue ancora, descrivendo il tentativo apportato subito dopo da Albino Povoli alias “Nino Pooli” (1862-1935), che quel giorno coadiuvava Tavernaro e Garbari in qualità di portatore. Trentino di Còvelo, coetaneo di Tavernaro, il forte arrampicatore vinse paradossalmente quel difficile strappo inaugurando ciò che divenne l’aerea “parete Pooli”. Nonostante le difficoltà tecniche, i tre riuscirono a progredire – “Nino Pooli” in testa – fino alla larga cengia poi detta “stradone provinciale” e da lì, con un paio di tiri di corda, guadagnare un minuscolo terrazzino aggettante, appena sotto la vicinissima cuspide che “Pooli” tentò con affanno di raggiungere direttamente.

Tenendo sempre presente di come i tre, allora, fossero sprovvisti di chiodi, è ancora Garbari a rievocare quei momenti… “il forte Nino (mi assalgono ancora i brividi a rammentarlo) fece l’ultimo tentativo. Dopo che il Tavernaro ebbe fissata la corda ad un blocco, egli salì adagio adagio la parete perpendicolare, gli scarsi appigli lo lasciavano procedere assai lentamente; era cosa da far raccapricciare vederlo colle mani incerte e tremanti cercare ogni asperità… S’alzò ancora un tratto, quasi avesse le ventose alle mani (il povero ragazzo aveva affidato tutto il peso del corpo alle prime falangi delle dita), stette lì fermo alcuni istanti, poi ridiscese”. La cordata, quindi, si riunì sul minuscolo terrazzino – che verrà intitolato a Garbari – per approntare la delicata discesa. Da lì alla vetta e all’immortale momento di gloria, sarebbero mancati neppure trenta metri, eppure quel giorno parvero insormontabili. 

I tre fecero ritorno non prima d’aver abbandonato al naufragio della Storia una bottiglia contenente il cartaceo messaggio a firma dell’alpinista di Trento: “Chi raggiungerà questo biglietto? A lui auguro maggior fortuna!”.

Dopo un infruttuoso tentativo, l’augurio arrise il 16 agosto 1899 alla cordata di Innsbruck Ampferer-Berger, che raccolse il biglietto lasciato sul “terrazzino Garbari”, traversò delicatamente qualche decina di metri, decifrò il passaggio-chiave, piantò un chiodo e s’impossessò per prima dell’ambita cima.

Neppure l’elegante salita che Tavernaro realizzò dieci giorni dopo sulla parete sud della Cima della Madonna (inaugurando ciò che in seguito divenne un’ambita traversata), insieme a Michele Bettega e con il forte binomio inglese Phillimore-Raynor, poté lenire la disillusione per il mancato appuntamento col “Campanìl Bàs”. Se quel 12 agosto del 1897 Antonio Tavernaro non si fosse bloccato appena sotto la “parete Pooli” portando invece a termine la prima ascensione del Campanile Basso, forse per lui la vita sarebbe cambiata.

Oltre la guida alpina

Il 15 agosto 1898, con un partecipato momento celebrativo, la Società degli Alpinisti Tridentini inaugurava il primo ampliamento del proprio Rifugio Rosetta, a nove anni dalla sua costruzione. Quel giorno, però, non si festeggiava solamente la conclusione di una ristrutturazione, peraltro assegnata all’impresa di Luigi Trotter. Da quell’estate, infatti, il rifugio avrebbe avuto una gestione fissa e residente, affidata alle cure del trentaseienne Tavernaro e della moglie Maria Gröber (1865-1942), tirolese di Castelrotto/Kastelruth, fassana d’adozione, già esperta cuoca presso l’Hotel des Dolomites di Herr Panzer. Era dall’inizio dell’estate che la coppia se ne stava occupando, tanto che nel libro del rifugio, alla data del 10 luglio 1898, si trova scritto… “Qui convenuti Luigi Trotter, Sebastiano Lucian [allora gestore della Canali-Hütte, l’attuale Rifugio Treviso], Girolamo Borsatti detto Borasca, Longo Giacomo, con le guide Antonio Tavernaro e Zagonel Bortolo visitato la Rosetta, pranzato tutti assieme e poi Luigi e Bastiano con la famosa guida Zagonel Bortolo ad ore 2 p. partivano per l’altipiano verso Refugio Pravitali, e il Signor Borasca in compagnia del Sior Giacomo Longo, barcolanti partivano ad ore 1 ½ p. con la brava guida Tavernaro Antonio, per S. Martino, fiduciosi però darivare polito. Tutti insieme diamo lode alla nostra brava coga [cuoca] Maria Tavernaro, con un evviva alla onorevole Società Tridentina”.

Nonostante la nuova occupazione, Tavernaro non solo riesce a combinare il mestiere di guida con l’impegno derivato dalla gestione del “Rosetta”, testimoniato dalle ordinarie salite alla Pala e sul Cimone, bensì ad aprire pure un itinerario di gran classe. Proprio sulla Pala di San Martino, ancora alla corda di Bortolo Zagonel, la guida di Siror rimonta direttamente la cresta settentrionale in accompagnamento al giovane medico sassone Oscar Schuster (Markneukirchen, 1873-Astrakhan, 1917), infaticabile rappresentante di un’eclettica espressione alpinistica che univa il vecchio modello pionieristico alla moderna filosofia arrampicatoria.

La nuova via rimarrà il percorso più ambito per giungere in vetta alla Pala almeno fino al 1920, quando la cordata Langes-Merlet forgerà il mito del “Gran Pilastro”.

Quella del 1898 fu un’estate proficua per il Rifugio della Rosetta, che contò almeno una settantina di passaggi, e ancora oggi si ricorda come Antonio e Maria Tavernaro avessero affittato un mulo per trasportare con continuità vetto vaglie e masserizie da San Martino fin sull’altipiano.

Nonostante la nuova occupazione, Tavernaro non solo riesce a combinare il mestiere di guida con l’impegno derivato dalla gestione del “Rosetta”, testimoniato dalle ordinarie salite alla Pala e sul Cimone, bensì ad aprire pure un itinerario di gran classe. 

Proprio sulla Pala di San Martino, ancora alla corda di Bortolo Zagonel, la guida di Siror rimonta direttamente la cresta settentrionale in accompagnamento al giovane medico sassone Oscar Schuster (Markneukirchen, 1873-Astrakhan, 1917), infaticabile rappresentante di un’eclettica espressione alpinistica che univa il vecchio modello pionieristico alla moderna filosofia arrampicatoria.

È sempre il Libro Forestieri ad informare sulla chiusura di quella prima stagione del nuovo corso: “24 settembre 1898. A. Tavernaro e moglie lasciarono il Rifugio pulitto quanto ci fu possibile, come pure la biancheria ed il mobiglio stendendo li materazzi ad una corda nel dormitojo dei Signori. Evviva l’Excelsior”.

Ma non fu una chiusura propriamente felice: pochi giorni prima, l’11 settembre, Norman-Neruda aveva perso la vita mentre saliva il Camino Schmitt alla Punta delle Cinque Dita, nel massiccio del Sassolungo; cima che lo svedese conosceva molto bene e che aveva celebrato quale esempio di “montagna alla moda”. Come in un beffardo gioco di assonanze, in quello stesso 11 settembre la guida di Siror stava compiendo la seconda ascensione della nuova via scoperta sulla cresta settentrionale della Pala, ancora insieme a Zagonel e con Karl Günther von Saar, uno studente di Medicina alpinisticamente molto affine a Norman-Neruda, che farà presto parlar di sé.

Dopo questa prima esperienza imprenditoriale, e con tutta probabilità in conseguenza dell’arrivo del loro terzo figlio, Antonio e Maria Tavernaro si cimenteranno con la costruzione di una locanda-ristorante in località Fratazza, poco a sud di San Martino. L’11 ottobre 1901 Maria darà alla luce Normanno Luigi Tavernaro, nome inconsueto che evoca chiaramente l’alpinista svedese appena scomparso. La coppia raccolse così l’invito della vedova Neruda, che aveva promesso un premio in denaro qualora un loro figlio avesse portato il nome del marito. Sembra, peraltro, che con quelle corone Tavernaro fosse riuscito a coprire le spese per completare il tetto della sua nuova locanda. Oggi, purtroppo, rimangono poche immagini del “Ristorante Mandron – Guida Alpina A. Tavernaro”: solamente qualche anno dopo, un incendio lo distrusse completamente e non fu più ricostruito.

Per intanto, con la famiglia allargata a cinque figli – il maggiore aveva dieci anni, la più piccola uno – l’esperta guida s’era vista costretta ad emigrare nuovamente verso il Tirolo settentrionale, in cerca di ulteriori risorse economiche. Fece ancora in tempo ad assistere alcuni clienti di Amburgo sulla Cima Val di Roda il 30 giugno 1904, poi alcune labili notizie lo ritrovano, ultraquarantenne, ad arrampicare nel Wilder Kaiser, tanto da generare qualche dubbio storico vista l’assonanza con un’altra guida che operava in quel periodo nelle Alpi calcaree nordtirolesi: Johann Tavonaro (1862-1914), gestore della Stripsenjoch-Hütte e primo salitore del Predigtstuhl, dalla cui vicina Stripsenjoch si eleva ancora oggi la monumentale Tavonaro-Kreuz (la “Croce di Tavonaro”).

Ma le incertezze saranno destinate a rimanere tali: colto da rapidissima malattia, Antonio Tavernaro buscaròl, una delle originarie, grandi “Aquile” dolomitiche, se ne andò in silenzio il 28 settembre 1907.

Piccole, indissolubili coltri nebbiose rimarranno per sempre avvinghiate, con i loro segreti, a remoti ometti di pietra sopravvissuti su qualche cima.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Riccardo Decarli di Trento (Biblioteca della SAT) e Hansi Mutschlechner, di Brunico.

Aquile Magazine