Viaggi nella Storia

Asperrimi, Horridi Montes

Testo: Dario De Marco

L’esigenza di rappresentare le caratteristiche di un terreno e del mondo circostante è antichissima, e la carta geografica è lo strumento di cui l’uomo si serve per capire l’ambiente. Nasce dal bisogno di segnare le vie di transito, di rendere visibili villaggi e città, valichi, corsi d’acqua, montagne; di tracciare confini tra popoli vicini, di gestire il territorio.

Sicuramente nel corso dei secoli vennero compilati disegni rudimentali, per fornire un orientamento sicuro alla navigazione, relativi a tracciamento di confini, ad impieghi amministrativi, per dirimere controversie. Erano manoscritti facilmente deperibili e di essi è rimasto ben poco: per l’incuria, per gli incendi, per le guerre. L’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg intorno al 1450, rappresentò un evento di eccezionale importanza anche per la cartografia e le carte geografiche a stampa si diffusero in modo spettacolare, affiancandosi o sostituendosi ai manoscritti. Si dice che la cartografia storica possegga un carattere “narrativo” attraverso il quale si possono ripercorre alcune tappe del progresso avvenuto nella conoscenza del paesaggio. Una semplice lettura può evidenziarne aspetti quantomeno curiosi: ad esempio quello dei toponimi (nomi di luogo) e, in particolare, degli oronimi (nomi dei monti), che destano particolare attenzione in quanto mostrano quanto sia stato faticoso questo progresso. Gli oronimi alpini sono infatti tra gli ultimi a nascere nella toponomastica cartografica. I cartografi antichi si arrestavano di fronte a scenari naturali selvaggi e inospitali come montagne e foreste profonde. Gli stessi romani, grandi conquistatori, non avevano interessi alpinistici; consideravano le regioni alpine, rozze e quasi inabitabili: “asperrimi montes“, dice Tito Livio.

In effetti le montagne rappresentavano un serio ostacolo alla loro espansione, perchè zone impraticabili, di accesso difficile o impossibile; una natura ostile per l’inclemenza del clima e la pericolosità dei luoghi, per la difficoltà di spostarsi e di tracciare strade, di fondare insediamenti stabili. Ritenevano anche – ricorda Federico Borca nel suo “Horribili Montes” – per una supposta legge di similarità che gli abitanti delle regioni montane presentassero uno stretto nesso con l’asperità dei luoghi; Si dice che la cartografia storica possegga un carattere “narrativo” erano luoghi dove si incontravano avversità d’ogni sorta, che non servivano perché non portavano da nessuna parte e in conseguenza non era necessario distinguerle una dall’altra. Pensavano che proprio per essere uomini agili, forti e resistenti alle fatiche per il continuo esercizio fisico cui erano sottoposti, per il clima inclemente, per le difficili condizioni di vita, fossero anche rozzi e selvatici, di indole aggressiva, di usi e costumi primitivi (“montani duri atque agrestes” dice Cicerone)”.

Fino a pochi secoli fa, nelle valli alpine, i toponimi indicavano in generale gli insediamenti e i luoghi delle coltivazioni, ma gli oronimi erano pressochè assenti, tutt’al più indicavano gli alpeggi: le cime Si dice che la cartografia storica possegga un carattere “narrativo” erano luoghi dove si incontravano avversità d’ogni sorta, che non servivano perché non portavano da nessuna parte e in conseguenza non era necessario distinguerle una dall’altra. Ci si accontentava di denominare le aree montagnose sino all’altezza all’altezza dei pascoli; qualche raro nome di monti era derivato da quello delle zone prative sottostanti: tale è il caso dei numerosi oronimi derivati da “pala” come ad esempio il Cimon della Pala, che si erge al di sopra dei prati della Pala Monda. Lo studioso francese di toponomastica alpina Jules Guex, riassume questo elemento naturale di trasformazione nell’assioma che “sovente in montagna i nomi montano”.

Tra coloro che erano capaci di superare le difficoltà del percorso, si tramandava di padre in figlio solo il nome di qualche isolato picco roccioso visibile da lontano frequentato per cacciare camosci, stambecchi e orsi (caccia al camoscio non solo per passione, ma perché fonte di proteine). In altri casi erano nomi dati a monti che per aspetto particolare colpivano la fantasia, o che servivano da meridiane naturali per indicare dove il sole tramonta o sorge o dove culmina (Cima Undici, Sass de Mezdì o torre di mezzodì). Nelle carte geografiche i monti inaccessibili non avevano nomi scritti tranne in alcuni casi di catene e i monti più importanti, che comunque all’inizio venivano delineati sommariamente, in maniera uniforme, senza indicazioni individuali.

Anche da un punto di vista cartografico il Primiero, paragonato ad altri territori alpini, mostra un aspetto un po’ particolare che affonda le radici non solo nella natura del territorio ricco di boschi e di miniere (nell’inno della contea del Tirolo composto verso la metà del XVI secolo: “Primörer Wald und Holz an Zal, Allerlei Sorten guet Metal” cioè “bosco di Primiero e legna in quantità, ogni tipo di buon metallo”) ma soprattutto nella sua situazione storica. Il Primiero è stato terra di confine, via di comunicazione tra la pianura e l’alta montagna, situato fra la contea di Feltre – poi Repubblica di Venezia – ed il Tirolo, cui appartenne fin dal XIV secolo, rimanendo ai confini d’Italia fino al 1919. Il toponimo “Primier” (documentato come Primeja in un documento del 1140) è rilevabile nelle carte geografiche a stampa fin dalla seconda metà del Cinquecento.

La prima volta lo troviamo collocato tra due corsi d’acqua (Vanoi e Cismon), accanto al segno di una costruzione, in una carta stampata a Venezia dal Pagano nel 15461 “del grande cartografo Giacomo Gastaldi. Il Gastaldi, nella carta successiva2 di Antonio Lafreri, francese ma stampatore in Roma, nel 1570 aggiunse altri toponimi: C(astel) Premier, Rocca di Schena, Cismon f(lumen) e, nei pressi, un indecifrabile M. Zelam che ritornerà spesso nella cartografia successiva. La rappresentazione dei rilievi è molto trascurata, le montagne appaiono diffusamente sotto forma di monticelli isolati, alti e radi nei crinali più elevati, piccoli e fitti nel degradare verso la pianura, raggruppati senza alcun rapporto con il rilievo reale come riempitivo di spazi.

Nella prima vera carta del Tirolo, una acquaforte su ferro che apparve a Vienna nel 1561 ad opera di Wolfgang Lazius, medico di corte, storiografo e un po’ geografo, Primier è collocato in una piccola area, accanto al segno di una costruzione, circondata da rilievi montagnosi e verso sud separato da un fitto bosco indicato come in cilfis (forse deformazione di in silvis). La carta, che non si basò su alcuna misurazione astronomica, disegna, con grossolane deformazioni, i tratti principali del Paese utilizzando i fiumi, il più naturale e antico elemento di orientamento sul territorio. Venne ripresa da altri (De Jode, Bertelli) e soprattutto nel 1570, rimpicciolita, da Abraham Ortelius, uno dei più eminenti cartografi del secolo, che aveva raccolto e assemblato un certo numero di mappe di vari autori dando origine, con il suo Theatrum orbis terrarum, al fenomeno editoriale del tutto nuovo degli “Atlanti”.

Nell’atlante “Italia”, edito nel 1620 a Bologna, Giovanni Antonio Magini, matematico, astronomo e cartografo padovano, inserisce una sua carta5, bella ed innovativa anche per l’estetica elegante e moderna, ma, per quanto riguarda l’oronimo Primiero con un numero di toponimi presenti assai scarso; l’unico è il solito M(onte) Zelan, ancora una volta non facilmente identificabile e posto ad ovest di Primiero (è da ricordare che per l’alpigiano “monte” vuol spesso dire pascolo, cioè la parte bassa della montagna). I rilievi sono disegnati in maniera convenzionale a coni di talpa che si affastellano, quasi uniformi, occasionalmente presentati come forme montagnose in miniatura ma senza rispondenza con gli aspetti della morfologia reale.

Talora le carte sono accompagnate da un testo esauriente stampato sul retro del foglio, ma proprio le carte più diffuse risultano poco aggiornate rispetto alla reale conoscenza del mondo dell’epoca, soprattutto per una certa inerzia manifesta degli stampatori, spiegabile forse con il sensibile costo di fare una nuova matrice. La ricerca della fedeltà alla realtà geografica procede lentamente: si tratta soprattutto di una cartografia realizzata con intento celebrativo che si esprime nell’eleganza del disegno, dei cartigli e nelle dediche al committente o al potente di turno. Gli Stati vedono nella rappresentazione territoriale cartografica un sostegno simbolico e funzionale alla loro sovranità e praticamente tutti i Paesi europei, entro la fine del XVI secolo, disponevano di un’immagine cartografica con carte che erano prevalentemente destinate ad ornamento o a simbolo di status più che all’uso concreto.

Questa carta del Magini, alla quale si ispirarono molte carte geografiche durante l’intero corso del XVII secolo, fu riprodotta pedissequamente, sostanzialmente invariata o variamente camuffata, senza porre attenzione alla qualità (sono presenti ripetitivamente toponimi come C. Primiero, Cismane fl, R. di Soena) da una fitta schiera di editori, primi fra tutti gli olandesi-fiamminghi con Gerardus Mercator nel 1589 e poi con gli Hondius,i Blau, i de Witt e molti altri, cui si aggiunsero autori di lingua tedesca (Homann, Seutter, Lotter) e francese MATHIAS BURGKLEHNER. DIE FÜRSTLICHE GRAFSCHAFT TIROL. 1611 (Jaillot, de Vaugondy e altri). Nelle numerose edizioni, e di autore in autore, si riscontrano grafie deformate e ripetuti errori di copiatura, che a volte rendono irriconoscibili i toponimi; ci sono grosse distorsioni territoriali e i tratti delle montagne, vengono variamente semplificati e schematizzati come nastri vermiformi, monticelli di talpe accostati, cime arrotondate.

Certamente non entravano a far parte della vita di tutti i giorni come oggetti che un privato avrebbe comprato e portato con se, ad esempio per facilitare gli spostamenti terrestri: il viaggiatore si orientava come faceva da secoli, chiedendo informazioni lungo la via. Una nuova epoca per la cartografia si annunciò nei primi decenni del XVII secolo ad opera di cartografi tirolesi che si occuparono unicamente dello Stato di cui erano membri. Raccogliendo il maggior numero di dettagli rispondevano al crescente interesse per la conoscenza del territorio, in primo luogo per fini pratici e catastali. Fecero così la comparsa carte di singoli territori, prodotte di regola su incarico dei principi e dell’autorità, per esigenze amministrative e giudiziarie, per la delimitazione di confini, per opere fluviali; le caratteristiche della carta, la riproduzione della natura e del territorio, dipendevano dai desideri del committente, oltre che da abilità, preparazione e interesse del cartografo. A Praga, il nobile Warmund Ygl nella sua carta del 1605, posiziona un certo numero di toponimi molto interessanti per il Primiero: klein e gros venegia, san martin Kofl, Primör, im Elfis e soprattutto un Aralis Albm: area pascoliva.

Questa sembra essere la prima documentazione cartografica di un toponimo alpino della zona: Aralis, è interpretabile come “area”, da cui potrebbe in seguito derivere “Rolle”; Albm, invece, segnala che l’ area è dedicata ad alpeggio, derivando, forse, da alb, oronimo che significherebbe monte, altura, pietra, ma che indica anche “pascoli di montagna” (un’Alpe Rolle fu acquisita dal convento di San Martino nel XIII secolo). A nord ovest è rappresentato localmente un M Colloritzon albm (forse pascolo del monte Colbricon). Il carattere montagnoso del paese è reso manifesto da numerosi disegni schematici di monti a cono di talpa, a volte ingranditi e posizionati a caso. Di poco posteriore (1611) è la carta7, opera famosa anche per un certo stile grafico barocco, di Mathias Burgklehner, funzionario del governo per le questioni territoriali di confine, specialmente con la repubblica di Venezia.

La carta rappresenta la prima importante descrizione del Primiero ed è ricca di toponimi: martins alben, Kloster bei Martin, Canalato, Herrschaft Primor, Schiror, Chiarimont, Donadigo, Petra, Transagna, Markt primor, Mezan, Imar, e di fronte sull’altro lato del torrente il Silvester pruggen con il simbolo di un ponte, Bastia, Scenar (Schener), Regana, Cauria, Canal di sopra e, Canal di mezo, Valsordobach e Venoibach. Fu considerata la miglior carta del Tirolo fino a quella dell’Anich, anche se i rilievi sui confini sono in parte occultati da una formazione di nubi; il disegno incombente delle montagne conserva un tono tutto pittoresco ma non rende affatto la differenza con i tormentati ed elevati profili delle gigantesche cattedrali dolomitiche.

Da segnalare anche il bolzanino Franz Adam von Brandis che in una carta del 1678, complessivamente assai lontana dalla realtà, assieme a S. Martins Albn, in Canaleth sulla sinistra di Primor, Schloss Petra, il torrente Sismon, introduce curiosamente il toponimo Ces. A partire dalle seconda metà del secolo i sostanziali progressi nelle conoscenze scientifiche consentirono minuziosi rilevamenti topografici e la nascita di una cartografia detta appunto “scientifica”, anche perché erano divenute più insistenti le richieste, soprattutto per fini politici e amministrativi, di rilevamenti territoriali più sicuri di quelli fin’ora in uso. Fu una vera “Riforma” e se ne occupò tra i primi il giureconsulto barone Joseph de Sperges con una carta (1762) che pur presentando ancora molti elementi approssimativi amplia la ricca toponomastica del Primiero: M. Boche, Valazza M, Giuriburt e Giuribello, Sagnon e Cereda, M. e R. di Canale, Val Sorda e Prade, Nolesca, i Tauferi, la Gobera, Val Noana e iniziano a comparire alcuni oronimi Laste di C (T)ognola, Vanezza M forse il monte Vezzana, Monte di Canale, Sass Maor per la prima volta, Le Vederne, Le Vette come confine con Feltre. I monti sono raggruppati in catene e, per la prima volta, in aggiunta alla rete idrografica compare un percorso stradale che unisce Strigno con Canal di Sotto attraverso il Tesino e attraverso lo Schener, sulla sinistra orografica del Cismon fin al Pontetto e da Siror a Rolle, unendo Fonzaso con Predazzo.

Ma a sgombrare il campo cartografico dalle delineazioni e denominazioni scorrette furono i rilievi e le misurazioni di grande precisione di Peter Anich e di Blasius Huber nel loro Atlas Tyrolensis del 1774. Basato su criteri rigorosamente scientifici, rappresenta la fine della cartografia dei secoli precedenti e l’inizio di una cartografia moderna. Fino all’inizio del 1700 la rappresentazione cartografica, lasciata all’iniziativa di privati studiosi ed editori, era fondata su malsicure determinazioni astronomiche, raramente frutto di misurazioni sul terreno; ogni cartografo copiava dagli altri senza preoccuparsi di controllare e di riportarne le fonti, quando è ben noto che in cartografia la loro autorità sia fondamentale. La posizione delle località veniva stabilita non in base alle coordinate astronomiche ma in base a distanze stimate dalla durata dei viaggi a piedi o a cavallo. Si ipotizza che in una giornata di cammino venissero percorsi dai 30 ai 40 chilometri in pianura, una ventina nei percorsi più accidentati. Proprio in quegli anni Keplero dice: “la cosa principale era percorrere il paese. Se tutte le località fossero riportate correttamente sulla carta sarebbe facile per un astronomo aggiungerci le latitudini e longitudini ma del resto una carta può essere compilata anche a casa propria solo interrogando i carrettieri e gli abitanti del luogo”. In fondo è così che venivano compilate le carte, mancando le basi elementari della matematica e astronomia: bastava dare un’immagine approssimativa delle direzioni e delle posizioni e, quando lo spazio faceva difetto si accorciava, oppure si allungava e si deviava al bisogno;.

Ecco un aneddoto narrato da Pompeo Molmenti che rivela come Fra’ Mauro, celebre frate cartografo e geografo veneziano del XV secolo, fosse invece poco incline alle richieste encomiastiche della committenza veneziana: «Un giorno, mentre Fra’ Mauro era intento a delineare su una grande pergamena uno dei suoi planisferi, venne a fargli visita un senatore della Serenissima.

Il cartografo gli illustrò il lavoro che stava eseguendo, ma il senatore era soprattutto ansioso di controllare se Venezia vi era indicata con il dovuto risalto. Non riuscendo a individuarla con immediatezza chiese con impazienza: “dove zela Venessia?”. “La xe qua” rispose Fra’ Mauro, indicandone il nome sulla pergamena. . E Fra’ Mauro: “la xe in proporzion del mondo”. Allora il patrizio replicò seccato: “e alora La posizione delle località veniva stabilita non in base alle coordinate astronomiche ma in base a distanze stimate dalla durata dei viaggi a piedi o a cavallo. fè el mondo pì piccolo e Venessia più granda!”. Ma Fra Mauro la lasciò “in proporzion del mondo”».

La carta di Anich e Huber è invece di alta fedeltà geografica per gli accurati rilevamenti topografici e verrà passivamente copiata e riproposta in più di una edizione, soprattutto ad uso militare. Apporta definitiva chiarezza nella rappresentazione grafica del nostro territorio con numerosissimi toponimi in lingua italiana di valli, boschi, malghe e pascoli, usi del suolo, miniere, fiumi e insediamenti umani correttamente riportati a seconda della loro importanza. L’orografia non è altrettanto accurata, anche se appaiono alcuni nomi di monti per la prima volta (Cavallazza, Monte Pala, Sass de Camp oltre che Sass Maor, Vezzana). Nelle carte di Anich il terreno è disegnato in maniera prospettica e riprodotto in modo più naturale possibile, però lo stile della rappresentazione non è costante: i monti del Primiero sono allineati a denti di sega, a cordoni, senza realtà individuale.

Tuttavia grazie al salto di qualità questa carta ebbe subito un grande successo e ispirò numerose imitazioni che si succedettero fino all’avvento della cartografia militare affidata a strutture dedicate istituzionalmente all’integrità e sicurezza del territorio e dello Stato. Nascono gli “ingegneri militari geografi” e, in Francia anche gli “ingegneri geografi del re”.

La conoscenza minuta del territorio era diventata un importante fattore militare, sia per vincere le battaglie sia per controllare gli spazi conquistati: a Milano, nel 1801, venne istituito il servizio topografico del “Deposito della Guerra”, nel 1862 l’Istituto Geografico Militare di Firenze iniziò la carta d’Italia, nel 1869 inizia la Spezial-Karte della monarchia austroungarica e rapidamente si entra nella moderna cartografia con carte che assumono aspetto ufficiale e contenuti spiccatamente tecnici.

È il caso di ricordare che la rappresentazione in superficie piana delle parti sferiche della superficie terrestre e il disegno del rilievo sono stati per lungo tempo fonte di grandi difficoltà. Per questo motivo l’orografia montana fu storicamente trascurata e fino al Settecento le alture venivano rappresentate in maniera grossolana con i cosidetti “mucchi di talpa”. Nella seconda metà del Settecento si cominciò ad usare il sistema detto “a millepiedi” in cui la linea dei monti veniva disegnata da due serie di trattini, finchè, alla fine del secolo, Johann Georg Lehmann, per rappresentare schematicamente i versanti, elaborò un sistema di tratteggio sulla base del principio “quanto più ripido, tanto più scuro” con piccoli tratti allineati sempre più fitti quanto più ripida era la pendenza: se immaginiamo che la luce provenga dall’alto, le superfici piane che hanno il massimo della luce risultano bianche, quelle inclinate appariranno più in ombra e i tratti saranno più fitti. Ciò rese possibile una riproduzione plastica più naturale del terreno, ma non permetteva di riconoscere la tipologia dei crinali, delle pareti e delle creste dentate.

La svolta decisiva per la rappresentazione completa e precisa dei rilievi avvenne nella prima metà del XIX secolo, quando, diffondendosi l’uso del barometro, si crearono le “curve di livello”, linee continue che si ottengono unendo tutti i punti del terreno posti alla stessa quota. Tuttavia questa tecnica si affermò molto lentamente per la scarsità dei dati altimetrici attendibili e le carte della regione alpina continuarono pertanto a riportare gli errori e le improprie interpretazioni del passato, anche in un epoca in cui si diffondeva, particolarmente all’estero, l’interesse per la montagna e si richiedevano topografie sempre più precise, fedelissime alla realtà.

Il ben noto timore degli antichi per la montagna, continuato nell’indifferenza durante i secoli XV-XVIII, era venuto a cadere fra il 1700 e 1800, quando essa divenne luogo di viaggio e di conoscenza, visione grandiosa e sublime. Fu un fenomeno iniziato e sviluppato dapprima dalla corrente naturalistico – illuminista di Rousseau, che vedeva la natura come buona, e in seguito dal Romanticismo, per il quale le prime esplorazione delle Alpi erano considerate simbolo di libertà, di ritorno alle origini e alla vita semplice e vera. Nella prima metà dell’Ottocento le Dolomiti – allora semplicemente Tirolo del Sud – rappresentavano nella geografia di montagna una “gran macchia oscura” e gran parte delle vette erano senza nome.

Era finito il periodo delle grandi scoperte geografiche e il passaggio all’esplorazione di aree montane considerate poco più che “selvagge” fu quasi immediato. europea della quale gli inglesi furono protagonisti incontrastati. Cime, creste, valloni, prima senza nome, vennero battezzati da questi alpinisti anche un po’ esploratori che dettero un nome a molte cime conquistate: Cima Wilma, in onore della figlia dello svedese Ludwig Norman-Neruda; “il torrrione più basso, ad occidente, del Sass Maor”, come lo definisce il Brentari nel 1887, fu chiamato “Cima della Madonna” nel 1886 da Winkler (scrive Vittorio Varale, citato da Lorenzo Doris: “Questa montagna che ha l’aspetto di una statua avvolta da un manto che la copre, scendendo in rigide pieghe dal capo fino ai piedi, la chiamò col nome più dolce che labbro umano possa profferire, quello che s’invoca quando tutte le speranze sono perdute: la chiamò cima della Madonna”), poi la cima Immink, nel 1891 dedicata alla olandesina scalatrice Jeanne Iimmink, la cima di Ball in nome del grande alpinista irlandese John Ball che nel 1868 pubblicò Guide to the Eastern Alps, e così avvenne per molte altre cime.

La nostra valle infatti non possedeva una tradizione cartografica interessata ai monti circostanti, quantomeno a fini alpinistici: in precedenza si ricordavano solo pochi monti: la Vezzana (Vanezza) e il Sass Maor nella carta di de Sperges, l’oronimo Pala descritto da Bacler d’Albe e ancora la Vezzana e il Sass Maor con l’Anich, Val delle Comelle nel De Zach del 1806. Accadde che proprio questi turisti, spettatori di incomparabili panorami, abbiano contribuito a correggere primitive carte topografiche, imprecise e lacunose, apportando i preziosi riscontri delle quote di alte montagne che avevano scalato e che all’epoca erano ignote (vigeva l’opinione che il monte era tanto più alto quanto più importante fosse il fiume cui dava origine eventualmente).

Loro indispensabile accessorio era spesso il barometro che pur essendo stato inventato da tempo era poco usato poiché il suo impiego, non sempre comodo, esigeva quantomeno che l’osservatore raggiungesse il punto di cui si vuol misurare l’altezza. Per i viaggiatori ottocenteschi delle Alpi che scalavano ostinatamente la montagna fino alla cima, l’ascensione era solo una parte dell’operazione culturale che si apprestavano a vivere. Le loro relazioni riempiono gli scaffali dei Club Alpini d’Europa; con l’occhio del cartografo facevano schizzi e dipingevano ciò che vedevano per fissarne l’esperienza.

Con l’altro occhio, più che contribuire alla rappresentazione materiale della realtà fisica del territorio, indagavano il mondo del montanaro in maniera profondamente diversa da noi, dando una rappresentazione, spesso disincantata, della loro percezione in quel particolare momento storico della nostra realtà umana. La lettura dei loro racconti è davvero interessante ed emozionante e ci fa scoprire l’evoluzione della coscienza sociale nel tempo. Purtroppo non saremo mai in grado di provare le loro emozioni, di cui, dai loro libri. ci balzano incontro solo gli struggenti fantasmi. Ma questa è un’altra storia che non riguarda l’occhio del cartografo.

Dario De Marco – Nato a Primiero, finite le scuole elemen­tari è emigrato per ragioni di studio e di lavoro. Medico oftalmologo per cin­quant’anni, dopo aver diretto complesse unità operative ospedaliere, ora si sta sottraendo lentamente all’intensa pra­tica professionale per dedicarsi ai suoi molteplici interessi culturali. Ha sempre mantenuto attivo il cordone ombelicale che lo lega alla sua Terra e ha addolcito la malinconia della lontananza collezio­nando ogni testimonianza che riguardi la storia della Valle. In particolare si è dedicato a raccoglierne i documenti cartografici a a partire dal XVI secolo.

Aquile Magazine