Vivere in Montagna

Aveu vist Fede?

Testo : Luciano Gadenz - Guida Alpina e Sandro Gadenz | Foto : Luciano Gadenz

“Aveu vist fede?” (Avete visto delle pecore?). Spesso tornando da qualche arrampicata sulle Pale, ho sentito rivolgermi questa domanda da gente del paese che aveva alpeggiato le sue pecore sui valloni alti, sotto le pareti.

Questo quesito è diventato poi un motto scherzoso e satirico. Nella realtà fin dall’alpinismo pioneristico le cronache parlano di luoghi che ricordano questa consuetudine, località legate al pascolo ovino e numerose testimonianze archeologiche lo dimostrano: iscrizioni rupestri o incisioni nei ripari, sulle alture. Gli stessi primi accompagnatori dei pionieri dell’alpinismo erano pastori o cacciatori, conoscitori dell’alpe. Nella toponomastica dolomitica molti nomi derivano da questa antica consuetudine: la Pala dei Gnèi (agnelli), l’Agnelezza, la Banca (cengia) dele Fede; oppure nomi legati a pastori che per decenni avevano frequentato pascoli alti: el Mandrìz (piccola zona di riposo) del Cempena sul Dalaibol dal soprannome di questo pastore, la Pala del Belia in Moiazza (nomignolo per un altro transumante). Altri sono chiamati con termini di specie vegetali favorite dall’intensa frequentazione ovina come el Sass dele grassole (Buon Enrico o Spinacio Selvatico),

il cui nome botanico è Chenopodium utilizzato in cucina per il suo buon sapore, ma ben conosciuto anche a scopo medicinale avendo spiccate proprietà antianemiche, antiscorbutiche e depurative; el Mandrìz del Luz (l’Aconito) pianta che appartiene al genere delle Ranuncolacee e che comprende una ottantina di specie erbacee.

Quella a cui ci riferiamo è l’Aconitum Napellus che è abbastanza diffuso nei boschi e nei pascoli delle Alpi.

Un luogo molto famoso è il Col dele Fede magnifico pulpito sotto la Pala di San Martino, che alpinisti ed escursionisti portano nei propri ricordi per il fascino e la maestosità. Nell’alta Val Canali, un grosso masso anticamente usato come riparo, dà il nome a tutta l’ampia zona di pascolo del Lastè Grand: Alberghèt (piccola dimora) dove si fermarono per un bivacco notturno i primi pionieri inglesi provenienti da Agordo attraverso la forcella dell’Orsa. Sulla cima Canali una bella via di salita porta il nome Heidi, aperta da Diego Dalla Rosa e Marco Simoni, con il sotto titolo “valoroso capo branco” che era un montone di Clorindo Lucian, persona tuttofare al Rifugio Pradidali e costruttore principale della ferrata del Velo-Portòn; Heidi era famoso per caricare a testa bassa chi osava avvicinarsi troppo alle pecore.          

Più recentemente il Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino in un progetto di salvaguardia della pecora di razza Lamon, ha riscoperto il termine Fedaia (zona dove si tenevano a lungo le pecore) creando un percorso didattico nei pressi di Villa Welsperg, chiamato delle Muse Fedaie. Lo stesso termine Pala nel nostro dialetto, sta ad indicare le zone erbose più o meno ripide, che si spingono sotto le pareti in conche sospese e cengie esposte, utilizzate da sempre per il pascolo.

Pecore sulle Pale, sotto le Pale! Una presenza amica e utile per la  bio-diversità, per il mantenimento dell’ambiente, per la salvaguardia di specie avicole legate alle deiezioni animali. Analizzando l’allevamento ovino nelle valli di Primiero e Vanoi, le consideriamo legate al vicino Feltrino ed in modo particolare al paese di Lamon. Nell’Ottocento troviamo una vera e propria Civiltà della Pecora e una fiorente industria della lana. A Feltre (la cui etimologia ricorda il feltro) nacquero dei lanifici come il Pozzobon nell’area ora adibita a parcheggio sotto i magazzini Oviesse e denominata ancora oggi Piazzale della Lana; anche in zone limitrofe la lana divenne un prodotto importante: in Valsugana fino agli anni Settanta del Novecento fu attivo il lanificio di Scurelle e a Primiero, i Guadagnini avviarono  un piccolo stabilimento che fu a lungo operativo per la lavorazione della produzione famigliare.

I Guadagnini si accasarono a Primiero provenienti da Predazzo nei primi anni del 1800. Costruirono un macchinario in legno che serviva per la follatura delle stoffe tessute a mano non solo a Primiero, ma anche nelle vallate vicine e nel Bellunese. La gestione della filanda passò di padre in figlio: Valentino II°, Francesco II°, Valentino III°. Sull’origine del nome Fol ci viene incontro il dizionario toponomastico Tridentino che definisce il Follo sinonimo di Gualchiera, l’edificio dove per mezzo di magli, o di pestelli mossi per di più dall’acqua, si sodavano o follavano i panni.

Il rassodare i panni bagnandoli e premendoli, è meglio conosciuto come processo di feltratura e non sono poche le persone dai cinquanta anni in su, ad aver memoria della ròsta (roggia) che portava in località Fol l’acqua che veniva usata durante tutto il processo di lavorazione. Il problema maggiore per quei tempi ancora privi di corrente elettrica, era però quello di trovare un modo per ottenere la forza motrice necessaria al funzionamento delle macchine. Nei nostri paesi si iniziò così ad utilizzare l’acqua dei torrenti che per caduta libera forniva l’energia per far girare enormi ruote con pale di legno. La roggia del Fol captava l’acqua del torrente Canali nei pressi della località Lanterna Verde. Essa forniva energia alla falegnameria e al mulino Debertolis, allo stabilimento del Fol; proseguiva per la località Forno (due segherie Debertolis) e per l’Isola Bella dove sorgeva l’officina di un fabbro   (el Bepi Cagna). Infine, serviva la segheria comunale di Transacqua nei pressi dell’attuale Istituto Tecnico Superiore, per tuffarsi poi nelle acque del Cismòn. La tosatura avveniva due volte l’anno in primavera e in autunno.

Lo strumento tradizionale usato era una forbice fòrfes dele fede, costituita da un unico pezzo di ferro forgiato a mano, con lame piatte ed appuntite e con impugnatura a molla. Qui ritorniamo alla figura della guida Marco Simoni di Ormanico che qualche tempo dopo l’impresa sulla cima Canali partì alla volta dell’Australia dove vive tuttora.

Laggiù, nel 1984 Ted Egan presentò quello che viene definito un concept album, ovvero un disco dedicato alla figura e alla vita dei tosatori: The Shearers. La copertina del disco riproduce un dipinto di Robert Ingpen dedicato alla figura di Jack Howe, un tosatore vissuto nel  Queensland dove morì nel 1920 e divenuto leggendario per aver prima tosato 237 pecore in un giorno, poi 321 in sette ore e quaranta minuti. Ad Alice Down riuscì nell’impresa di tagliare la lana a 1437 capi in una settimana.

Immaginiamo che anche nella lontana Australia dopo la tosatura, la lana venisse pulita manualmente dallo sporco più consistente e messa a lavare in un mastello di acqua piovana o in acqua corrente per vari giorni smuovendola di tanto in tanto.

Dopo il lavaggio veniva stesa su un lenzuolo ad asciugare al sole. Nelle nostre zone seguiva poi la cardatura e successivamente la filatura, lavori tipicamente femminili effettuati utilizzando tutta una serie di attrezzi che oggi rivediamo nei musei o in occasione di manifestazioni popolari. Calze, magliette, maglioni, giacche e mantelle erano confezionati in casa durante i filò invernali, ma anche l’infeltrimento era molto in uso per la creazione di cappelli, dei tipici calzoni (ghette) di stinfi (ciabatte) ed altro ancora, utile per la famiglia. Ogni famiglia contadina possedeva un certo numero di pecore per il proprio fabbisogno di carne e lana, mentre nel paese di Lamon molti si dedicarono ad un allevamento di maggiori dimensioni, che comportava lo spostamento continuo alla ricerca di erba per gli animali.

La transumanza, remengàr, è costituita da continui spostamenti stagionali dalla pianura alla montagna in primavera, con il ritorno autunnale ai pascoli situati lungo i grandi fiumi, fino al mare. La vita dei pastori è stata oggetto di studio per anni, e accanto alle mostre fotografiche ci fa piacere ricordare anche due volumi su tutti: Transumanze di Adolfo Malcarne (che non a caso è di Lamon) uscito nel 2009 e che si apre con una citazione di Erri De Luca: 

“…il pastore traversa la superficie e scavalca confini. Ignora le linee immaginarie inventate dai popoli per il loro possesso, a imbracare la terra in un reticolo di separazioni. Perché essa è una e il pastore più di ogni altro mestiere sa che si è ospiti del suolo e non suoi proprietari. Ospiti delle notti squadernate sopra le loro teste, scintillanti di luci, o sotto ricoveri precari a tremare di pena sotto i lampi…”.

Un altro volume che va citato è quello della Guida Alpina e fotografo Daniele Lira di Borgo Valsugana dal titolo “Perché il silenzio non ha parole” uscito nel dicembre del 2003 e che documenta attraverso una serie di fotografie in bianco e nero la vita dei malghesi e dei pastori del Lagorai.

Questo sistema di allevamento è ancora in uso, ma sempre più difficoltoso e capita ancora di assistere al passaggio di greggi molto numerose, anche di oltre mille pecore e mescolati fra loro qualche asino e poche capre. Nelle vallate di Primiero e Vanoi ci sono stati e ci sono, pochi pastori nomadi come Candido Stefani; nel periodo estivo altri vengono a pascolare: Lorenzo Fedele Biagi, Angelo Paterno Lupo, Renato Baldessari Diga, di Bellamonte, Ruggero Divan di Cavalese e Luciano Paoli Mochen. È sempre stata più diffusa, e lo è ancor oggi, la forma di allevamento semi stanziale o stanziale: in inverno la stabulazione è libera in ricoveri essenziali, con alimentazione a fieno e modeste quantità di mangime; in primavera, pascolamento delle zone marginali con recinzioni elettrificate; in estate, pascolo in alta montagna in piccole greggi allo stato brado, con periodico controllo per portare il sale.

È consuetudine porre dei segni distintivi sugli animali come del colore o dei marchi sulle orecchie (node o nove). 

Quello estivo è il periodo di miglior benessere sia per la qualità della lana che per la fecondità e longevità, grazie all’aumentato numero di globuli rossi.

In autunno, al ritorno, si pascolano le pecore ancora in recinzioni elettriche prima che le gelate e la neve rendano proibitive le condizioni esterne. È proprio questo periodo dell’anno che ha ispirato lo scrittore islandese Gunnar Gunnarson per la stesura del suo Pastore d’Islanda pubblicato in Italia da Iperborea dove si narra di Benedikt, che ogni anno la prima domenica di Avvento si mette in cammino con il cane Leo e il montone Roccia per portare in salvo le pecore smarrite tra i monti, sfuggite ai raduni autunnali delle greggi.

“…C’era vento da nord, la neve accarezzava dolcemente i fianchi delle colline, come se il suo solo pensiero fosse spianare il terreno sotto i passi di Benedikt, oppure improvvisamente fuggevoli danze intorno alle rocce e ai blocchi di pietra, abbracciandoli con una grazia gelida e soprannaturale. Certo non era affatto la condizione ideale per cercare le pecore: un tempo del genere le spinge a mettersi al riparo e la neve cancella all’istante ogni traccia. Ma Benedikt non se ne preoccupò: cercare si doveva, anche se il tempo e le montagne gli tenevano il broncio. E il suo zelo fu premiato. La fortuna che lo aveva tradito il giorno prima, sotto un cielo sereno, tornò ad assisterlo nella bufera. Ne trovò due già di primo mattino, una terza verso sera e un altro paio nel viaggio di ritorno, per cui alla fine erano cinque in tutto. Cercare pecore nella bufera era come gettare le reti in un mare torbido, ma quella volta la pesca diede i suoi frutti.” 

L’allevamento ovino, in tutto l’arco alpino viene considerato complementare a quello bovino perché la pecora sfrutta tutte quelle zone che data la stagione, l’altitudine, le caratteristiche e l’accessibilità del pendio, la qualità dell’erba, risultano poco o nulla adatte per lo sfalcio o per il pascolo bovino. L’influenza degli ovini sulla vegetazione non è così intensa da imporre un’impronta determinante in quanto la pecora ha una grande adattabilità ad ogni tipo di terreno, per la maggiore resistenza alle avversità climatiche e per la capacità di nutrirsi con erbe a scarso valore alimentare.

La progressiva diminuzione del numero degli ovini e la quasi scomparsa di razze autoctone legate ad un territorio, hanno interrotto un equilibrio naturale consolidato da secoli, portando spesso ad un degrado talvolta irreversibile che la natura impiega lunghissimi tempi a ripristinare.

Nell’ottica della salvaguardia ambientale, sono state avviate varie iniziative ad opera di Enti Pubblici, del Parco Paneveggio Pale di San Martino, di associazioni come APOC (Associazione Provinciale Ovi Caprini), Associazione Fea de Lamon, salvando le razze in via di estinzione come la Lamon e la Tingola o Fiemmese, mantenendo pascoli in altura onde favorire la Coturnice, recuperando una materia prima come la lana ed offrendo la possibilità di una lavorazione artigianale legata ad un marchio e ad un territorio.

Nella prospettiva futura il problema da risolvere sarà la convivenza con il ritorno tanto voluto e finanziato dei grandi carnivori come l’orso e il lupo che già hanno portato molte problematiche all’allevamento ovino e che sicuramente vedrà scomparire le piccole greggi che hanno accompagnato per molti decenni con la loro presenza e gli scampanellii, i movimenti in quota di alpinisti ed escursionisti. Speriamo di non dover cambiare l’interrogativo “AVEU VIST FEDE?” con “AVEU VIST  LUPI?”.

Aquile Magazine

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