Testo: Manuela Crepaz | Foto Pierluigi Orler
Il mondo dei ricordi è sempre affascinante: il filo della memoria si dipana senza la pretesa perfezione documentaristica, lasciando spazio solo all’emozione. Una pausa di condivisa intimità.
Quella di Clario Brandstetter, nato almerol nel 1952, e della sua famiglia, è stata una vita avventurosa, vissuta in simbiosi con il cavallo, presenza essenziale per il suo lavoro e quello di suo padre Milio. Anche oggi Clario conserva il suo amore per loro, dedicandosi ad attività meno faticose e pericolose: i suoi diletti animali trascorrono l’estate in malga, sulle Nève, l’inverno a San Martino di Castrozza per le uscite in troika con i turisti e al maso negli altri periodi. Clario ha cominciato presto a lavorare: “Le cime le ho girate tutte. Ho cominciato dopo l’alluvione del ‘66, a 14-15 anni. Mio padre rimaneva co le vache, mi col legnam. Ere si doven che l’era el caval che menea mi!” Clario, nel suo dialetto s-cèt, racconta volentieri del tempo passato, quando suo padre faceva il carrettiere, un lavoro che ormai rimane solo nei ricordi di pochi.
In segheria si lavorava in turni di otto ore. Clario, raccontando, ogni tanto indugia e spiega i termini “tecnici” comuni un tempo: la sciolta era il cambio degli uomini e il numero medio di addetti in una segheria era di dieci persone. “Oggi ci sono più macchinari che boschieri”, commenta sorridendo. Andare e tornare dalla Noana, “te le Buse” sono 11 chilometri. La partenza era alle due del mattino e si portava da mangiare e da bere per il cavallo. Al cavallo si dava da mangiare presto co l’avena e poi subito si cominciava a caricare cinque metri di bore. Alle quattro del mattino si faceva la polenta, che doveva durare fino a merenda, quando la si mangiava ghiacciata tolta da una tasca. Bello il commento di Clario quando dice: “El laoro lo fea el caval”. C’è tanto rispetto nel suo tono di voce, per quell’animale insostituibile, che doveva trainare il carro con le bore faturade, scortecciate e secche così pesavano meno. Si tornava a casa il sabato sera e già la domenica si ripartiva, perché al lunedì il cavallo non doveva essere stanco, doveva avere il tempo di riposare, perché poi lavorava anche dieci, undici ore.
Quella del carador, il camionista ante litteram, era una professione dura, rischiosa, pesante, che prevedeva lunghi periodi fuori casa e non contemplava giorni di riposo né per l’uomo, né per il fido compagno a quattro zampe. Clario ricorda che Milio trascorreva anche tre mesi in Caoria. Aveva appreso il mestiere dall’Ernesto Caterinot ed era uno dei pochi caradori in Valle, assieme al Clino. L’ultimo viaggio da carador, Milio lo intraprese nel 1957. Se ne andrà a 79 anni nel 1989. Coi suoi cavalli, andava nel bosco a caricare le bore coi slitoi che poi venivano portate alle segherie ad acqua di Primiero per farne breghe: al tempo c’erano le segherie dei Sterlina, del Pippi, del Boninsegna, la Fulgater, e tante altre.
Il carador trasportava le assi alla stazione ferroviaria di Feltre. Su un carro ci stavano “bei pachi”, 10-12 metri di legna, e poi al rientro si caricava il vino per le osterie e la farina per la coprativa. Si portava fuori valle anche carbone, fieno e fascine, utilizzate per alimentare i forni del pane. Con i cavalli, Milio a primavera trascorreva un mese a Fonzaso ad arare. L’arrivo del primo trattore non è partito sotto i migliori auspici. Si ricorda che suo padre gli raccontava infatti che il trattore aveva arato solo un paio d’ore, poi el se à piantà. “Aselo là che aron noi”, aveva detto Milio al proprietario del campo.
Sicuramente più valido e sicuro il lavoro svolto dall’uomo e dal cavallo, di quello del primo mezzo agricolo. Acquistare un cavallo era un investimento sicuro, ma serviva il capitale. Infatti, Clario stima che negli anni ’20, dopo la guerra, il costo era di trecento lire, “come do bone vache”. Anche allora si pagavano le tasse, non è cambiato nulla, il carro aveva una targa col stempel de l’Italia, tassata dalle cinque alle dieci lire. Principalmente, si utilizzavano i grigi cavalli di razza Piave, oppure i Croati, che arrivavano a Palmanova dalla Croazia e si compravano lì o a Feltre. Gli ultimi lavori coi cavalli sono stati quelli di tirar bore te le strade. Poi, coi camion, sono arrivati i pescanti (le teleferiche) anche a Primiero che hanno reso superfluo l’utilizzo dell’animale a favore di cingoleti, trattori e verricelli.
Clario è una vera miniera di informazioni, soprattutto per quanto riguarda la sua perfetta conoscenza del gergo che si usava allora, le espressioni tipiche e i modi di dire. Sarebbe interessante raccoglierli tutti, perché non vadano persi, sono infatti patrimonio della cultura orale, prima che passi troppo tempo, prima di non comprendere più la frase: L’é drio a ndar fora de scoa a quindese ani, ghe taca i sparagagni te le gambe. “