Viaggi nella Storia

Gli eroici eredi degli antichi “Menadas”

Testo: Giuliano Zugliani - Guida Alpina | Foto Pierluigi Orler e archivi privati

Storia dell’emigrazione dei boscaioli di Mezzano nelle foreste francesi

“A la mattina all’alba si sentono le trombe suonare: son gli Aisemponeri che vanno via”. Queste le parole di una nota canzone che tutti a Primiero conoscono e che lega il comune sentire della nostra gente al fenomeno dell’emigrazione, uno spaccato sulla storia dei boscaioli di Mezzano nelle foreste francesi.

Primiero, come tutte le valli del Trentino, a varie ondate è stato interessato dal fenomeno sociale dell’emigrazione. Prima della metà dell’Ottocento, per secoli, dall’epoca feudale, le popolazioni di Primiero e del Vanoi non hanno conosciuto il fenomeno dell’emigrazione, se non in misura del tutto trascurabile. Anzi, abbiamo avuto il fenomeno inverso nel 1400, quando numerosi minatori provenienti dalla Germania e dall’Austria immigrarono a Primiero per lavorare nelle miniere in forte attività in quel periodo.

Tali scambi avvenivano con grande difficoltà vista l’assenza di una vera e propria strada lungo la forra dello Schenèr. Per secoli, tutta la merce veniva trasportata sulla schiena di muli o cavalli: da qui l’origine del termine Schenèr da “schena” (schiena).

Testimonianza ne sono i numerosi cognomi di origine tedesca presenti ancor oggi in valle e lo stile gotico della chiesa arcipretale di Fiera costruita in quel tempo.

Fino a fine Ottocento, l’economia della valle era quasi un’autarchia: gli unici scambi commerciali verso il Veneto erano la vendita di legname e di minerali quali il ferro e l’argento provenienti dalle numerose miniere site in valle. Dalla pianura invece arrivavano poche derrate alimentari quali farina, sale, vino, olio zucchero.

Altro è stato il trasporto del legname che veniva fluitato sul torrente Cismon lungo la gola dello Schenèr fino alle secche di Fonzaso. La fluitazione del legname occupava stagionalmente numerosa manodopera, i cosiddetti “menadas”, gli addetti alla fluitazione. Mestiere duro, pericoloso e malsano. Si calcola che dai boschi di Primiero e del Vanoi uscivano verso il Veneto ogni anno più di 20.000 metri cubi di legname allestito in migliaia di tronchi di varie misure e qualità.

Gianbattista Zugliani "Tita de Valdestona"

L’8 settembre 1882 venne inaugurata la nuova strada dello Schenèr che da subito facilitò la comunicazione con l’esterno. Anche il commercio del legname subì una drastica trasformazione: venne abbandonata la pratica delle fluitazione e gran parte del legname venne lavorato in valle.

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quella del legname e il turismo estivo, nella vicina San Martino di Castrozza, furono le uniche risorse economiche di un certo valore. Le utilizzazioni forestali occupavano stagionalmente un gran numero di persone; numerose erano le compagnie di boscaioli quasi sempre scarsamente attrezzate e che normalmente lavoravano a cottimo con paghe molto contenute. 

Il lavoro era duro e pericoloso; si lavorava sei giorni a settimana, dall’alba al tramonto, e quasi sempre il pernottamento avveniva in baracche costruite sul posto di lavoro con materiali poveri quali pali, corteccia e rami di abete. L’alimentazione era poverissima a base di polenta per tre volte al giorno.

Dopo la Seconda guerra mondiale, a seguito di accordi bilaterali tra l’Italia e alcuni Stati europei che richiedevano manodopera (1946 Francia e Belgio, 1948 Svizzera), si aprì una nuova possibilità di occupazione anche per Primiero. In alcune regioni montane transalpine della Francia quali l’Alta Savoia e le Alpi Marittime, iniziò lo spopolamento dei piccoli paesi di montagna: gran parte della popolazione fu attratta dalle numerose industrie sorte nei grossi centri quali Grenoble, Annecy, Gap e così gran parte dei boschi rimasero da tagliare mettendo in crisi le locali segherie.

Fu in quel periodo che alcuni proprietari di segherie francesi richiesero all’Italia manodopera, quali boscaioli e teleferisti, per poter utilizzare il legname dei loro boschi. Forti di questa opportunità, anche numerosi giovani della valle, soprattutto dei paesi di Mezzano, Pieve e Transacqua, alcuni già esperti, altri con buona volontà, decisero di partire per questa nuova avventura lavorativa. 

Normalmente le squadre, formate da 10-15 persone, venivano precostituite prima di partire da un capo compagnia che si occupava di fare il contratto economico e curava tutta la logistica della compagnia e i rapporti con  il “padrone” francese. In alcune annate tra gli anni ’50 e ’60 nei boschi delle Alpi francesi operavano anche più di cento boscaioli provenienti da Primiero.

Il lavoro era stagionale, le squadre partivano in primavera e rientravano a fine anno dopo aver esboscato e consegnato il legname tagliato durante l’estate.

Giovanni Corona “Beneti”

Prima di partire per la Francia c’era da munirsi di passaporto e sottoporsi per tre giorni a visite mediche a Milano presso il Centro Emigrazioni, quello che i boscaioli di Mezzano chiamavano “el ort della Cheti”

Seguiva un lungo viaggio in treno fino in Costa Azzurra, poi sul cassone di un camion arrivavano alla loro meta. Il loro misero bagaglio consisteva in pochi vestiti e nell’attrezzatura da lavoro. 

Al loro arrivo in Francia li attendeva un paesaggio molto diverso dalla valle di Primiero, piccoli paesi dispersi e mezzi abbandonati, boschi di conifere, una viabilità forestale quasi assente: una vera desolazione e nessuno conosceva il francese.

Giuseppe Cosner “Cosneri”

Andrea Pistoia detto “Nino” descrive così il suo arrivo a Bairols, un piccolo paese aggrappato su uno sperone di roccia nel dipartimento delle Alpi Marittime:

“Son ruadi a Bairols, en paes de ventoto abitanti, la tut sun crot. Su la piaza par poder girar el camion, l’unica, ne a tocà portarghe el cul con do pali”. (“Siamo arrivati a Bairols un paese di ventotto abitanti, appoggiato su uno sperone di roccia, sulla piazza per poter far girare il camion abbiamo dovuto spostarlo da dietro con due pali”).

Il primo lavoro della squadra era costruirsi una baracca dove alloggiare durante la stagione lavorativa.

Normalmente la baracca veniva fatta il più vicino possibile al bosco da utilizzare e ad una sorgente d’acqua; la baracca a volte era distante anche più di un’ora di cammino dal paese. I materiali con cui era costruita erano: dei pali che costituivano un’intelaiatura rivestita con della corteccia tolta dagli abeti quando erano in succhio “i ndea in amor”;

sul tetto veniva messa della carta catramata e dei rami di conifera per evitare che la tempesta rompesse la carta stessa. I giacigli erano fatti di fieno e “tasa” (piccoli rami di abete).

Per cucinare c’erano uno o due punti fuoco collocati per terra e riparati da alcuni sassi. Normalmente alla compagnia si aggregava una donna con la mansione di cuoca. La sua vita era dura e solitaria. La sua giornata cominciava quando albeggiava, si alzava prima degli uomini, accendeva il fuoco e preparava la colazione: caffè col vino e pane, a volte latte condensato.

Trascorreva la giornata tra cucinare e lavare e rammendare i miseri vestiti dei boscaioli. L’alimentazione non era molto varia, a pranzo c’erano di solito polenta e formaggio. Per tradizione, si calcolava che ogni boscaiolo avesse diritto ad un litro di vino al giorno. Tuttavia, in media, il consumo quotidiano era di due litri a testa. Da testimonianze sul cantiere di Upega, località nelle Alpi cuneesi dove lavorarono numerose squadre di boscaioli primierotti, a fine stagione si è conteggiato che una squadra di ventidue persone, in sette mesi, abbia bevuto più di 9200 litri di vino equivalenti a 170 damigiane in gran parte portate in baracca a spalla e a dorso di mulo.

È superfluo dire che nella baracca non esistevano bagni né docce. Quindi, di norma, ci si doveva lavare “a pezzi”. Ogni tanto nei mesi più caldi, gli uomini si lavavano nelle pozze dei torrenti, i “bojoni”. Di norma la domenica era riservata in parte alla pulizia personale e al bucato.

Il lavoro dei boscaioli veniva retribuito a cottimo, per cui meglio era organizzato e più si lavorava e maggiore era il guadagno, quindi  le giornate lavorate erano di dieci e più ore compreso il sabato, si riposava solo la domenica se non c’era urgenza di portar avanti il lavoro. Il guadagno a fine stagione per una squadra ben affiatata e professionalmente preparata era una bella somma, con alcune stagioni di lavoro riusciva ad avviare la costruzione di una casa in Italia.

Nei mesi primaverili-estivi, l’intera squadra era impegnata nel taglio e nell’allestimento dei tronchi tramite la sramatura, seguita dalla scortecciatura; quindi i tronchi venivano lasciati sul letto di caduta ad asciugare fino ad inizio autunno quando cominciava l’operazione dell’esbosco.

Andrea Pistoia “Nino”

Trascorreva la giornata tra cucinare e lavare e rammendare i miseri vestiti dei boscaioli. L’alimentazione non era molto varia, a pranzo c’erano di solito polenta e formaggio. Per tradizione, si calcolava che ogni boscaiolo avesse diritto ad un litro di vino al giorno. Tuttavia, in media, il consumo quotidiano era di due litri a testa. Da testimonianze sul cantiere di Upega, località nelle Alpi cuneesi dove lavorarono numerose squadre di boscaioli primierotti, a fine stagione si è conteggiato che una squadra di ventidue persone, in sette mesi, abbia bevuto più di 9200 litri di vino equivalenti a 170 damigiane in gran parte portate in baracca a spalla e a dorso di mulo.

Andrea Bettega “Vetoret”

Gli attrezzi usati fino ad inizio anni ’60 erano la semplice accetta, la mannaia e il segone. Mediamente ogni operaio riusciva ad allestire 6-7 metri cubi di legname al giorno. A fine anni ’50 furono introdotte le prime motoseghe, “le Canadien”, macchine però molto pesanti e con numerosi problemi tecnici.

In autunno, quando ormai le piante entravano in riposo vegetativo e risultava molto difficile e faticosa la scortecciatura, si iniziava l’ esbosco dei tronchi ormai in parte asciugati e cosi più leggeri da movimentare.

L’esbosco, se l’orografia e la pendenza del terreno lo permettevano, avveniva per gravità: facendo scivolare uno sull’altro i tronchi verso valle seguendo canali naturali o costruendo le cosìddette “resine” o “cave” in legno (sorta di condotte fatte con tronchi di legno su percorsi lunghi anche centinaia di metri in cui i tronchi scivolavano uno su l’altro).

Durante le operazioni di concentramento dei tronchi, a forza di braccia usando gli zappini per coordinare l’azione dei boscaioli, una persona ritmava l’azione del tirare con una serie di cantilene, alle volte anche molto colorite. Non tutti erano portati per questo, uno molto bravo a “ciamarla” era el Piero de Valdestona con ripetuto ritornello “Op, op, dai che la ven, tochela che la se asa…”

Altro sistema molto usato per l’esbosco era l’uso delle teleferiche, in particolar modo il tipo “Valtellina” va e vieni. Nella costruzione di questi impianti molto complessi, i nostri boscaioli erano dei grandi tecnici e ricercati specialisti.

Famoso è l’aneddoto in cui si racconta che Fino Donadela (Lorenzo Corona) per la tensionatura della fune portante di una teleferica fece fermare la corriera di linea che passava sulla strada vicino all’impianto e bonariamente chiese di poter agganciare la fune con le taglie al mezzo che poi trainandola mise in tiro l’impianto evitando giornate di duro lavoro.

Nel 1954 a Upega per l’esbosco del legname dalla zona delle Navette, priva di strada, fu costruita una teleferica lunga più di quattro chilometri con un sostegno aereo di tipo ad “aeroplano”: un cavo d’acciaio teso tra un pero e un larice posti sui lati opposti del vallone. Questo serviva a sostenere i due cavi fissi della teleferica: “la portante” e “il ritorno”. Una notte, durante un temporale, un fulmine si scaricò sul larice che sosteneva l’aeroplano e danneggiò il cavo.

Leonardo Sartor “Petuco”

Per proseguire il lavoro di esbosco, era necessario porvi rimedio, smontando tutta la teleferica con la conseguente mole di lavoro e il rallentamento delle attività. Un’altra soluzione, pressoché impensabile perché molto pericolosa, era che un uomo salisse a sistemare quel cavo. Giovani dei Cosneri (Giovanni Cosner), il più giovane della squadra, si offrì volontario. Legato come un salame fu fatto scivolare con una carrucola chiusa lungo l’aeroplano, fino a raggiungere il punto in cui i due cavi della teleferica erano usciti dalle loro guide (le pipe). La tensione dei boscaioli che assistevano era forte: sotto di lui c’era un salto di 60 metri. 

Giovanni dovette recuperare i due cavi d’acciaio che penzolavano allentati, due metri sotto all’aeroplano, li rimise in sede e fu fatto scendere sano e salvo. Ancora oggi questo episodio viene ricordato e raccontato con ammirazione da chi era presente.

Questa “epopea di Francia” per i nostri boscaioli durò fino alla fine degli anni ‘60 poi anche l’economia della nostra valle aumentò le opportunità di lavoro e numerosi si fermarono e vennero assunti nelle imprese edili e artigiane, altri continuarono a fare i boscaioli in valle portando dalla loro precedente esperienza francese una ventata di novità. In questo periodo furono introdotte le motoseghe molto più leggere e tecnologicamente più avanzate, arrivarono i primi “pescanti” (gru a cavo) ed i trattori con verricello.

Per proseguire il lavoro di esbosco, era necessario porvi rimedio, smontando tutta la teleferica con la conseguente mole di lavoro e il rallentamento delle attività. Un’altra soluzione, pressoché impensabile perché molto pericolosa, era che un uomo salisse a sistemare quel cavo. Giovani dei Cosneri (Giovanni Cosner), il più giovane della squadra, si offrì volontario. Legato come un salame fu fatto scivolare con una carrucola chiusa lungo l’aeroplano, fino a raggiungere il punto in cui i due cavi della teleferica erano usciti dalle loro guide (le pipe). La tensione dei boscaioli che assistevano era forte: sotto di lui c’era un salto di 60 metri. 

Giovanni dovette recuperare i due cavi d’acciaio che penzolavano allentati, due metri sotto all’aeroplano, li rimise in sede e fu fatto scendere sano e salvo. Ancora oggi questo episodio viene ricordato e raccontato con ammirazione da chi era presente.

L’ultimo boscaiolo a lasciare la Francia nel 1990 è stato il Tita de Valdestona (Giovanni Battista Zugliani) che, partito per Bairols non ancora diciottenne, lavorò con grande entusiasmo in numerosi boschi delle alpi Francesi e vi rimase per più di trent’anni. Per ovvi motivi di tempo e di spazio non ho potuto contattare e sentire tutti quelli che hanno vissuto questa esperienza lavorativa e mi sento per questo dispiaciuto. Mi scuso, con questi ultimi e mi appello alla loro comprensione, siete stati tutti dei grandi.

Ascoltando il racconto di alcuni dei protagonisti delle vicende sopra descritte ho tratto dalla loro viva voce due brevi brani che ritengo una schietta testimonianza di come era la vita di questi nostri compaesani boscaioli in terra di Francia. Inoltre dalle numerose chiacchierate fatte insieme a loro ho tratto gli spunti per questo articolo e desidero che i loro aneddoti e le loro testimonianze siano la voce di tutto quel numeroso e variegato gruppo di boscaioli, persone semplici, umili, laboriose che hanno provato sulla propria pelle le condizioni di emigrante, a volte assai dure, difficili, e che per lungo tempo hanno lasciato l’amata valle, le proprie case natie, i verdi prati fioriti in primavera, le canisele del paese e soprattutto le proprie amate famiglie.

Nell’ascoltare i tanti fatti e gli aneddoti, si rimane stupefatti dai sacrifici, dal duro lavoro e dai rischi che hanno affrontato durante quegli anni di lavoro nei boschi delle alpi francesi.

Aquile Magazine