Testo: Manuela Crepaz | Foto: Pierluigi Orler e archivio Giacomo Corona - Guida Alpina

Le guide alpine Luigi De Nardin, Giacomo Corona, Franco De Nardin, Walter Levis, Ruggero Daniele: quando è l’amicizia che lega a corda doppia.
Questo è il segreto delle belle imprese alpinistiche, oltre al costante allenamento e l’attenta concentrazione.

L’impresa era ardua, tuttavia il fotografo Pierluigi Orler non ha vacillato. Il compito che gli avevo affidato era di quelli difficili, ma sapevo di poter contare su di lui: esprimere attraverso un’immagine l’amicizia che lega – come una corda da roccia – i cinque protagonisti delle due salite invernali alla Pala di San Martino, cover story di questo numero di Aquile: il primierotto Giacomo Corona (el Sepp), gli agordini Luigi (Gigi) De Nardin, Franco De Nardin, Walter Levis e il vicentino Ruggero Daniele (el Scriciol).

Una foto che mostri la loro voglia di scalare assieme al loro affiatamento, irrobustitosi nel gruppo della Guardia di Finanza a Passo Rolle e condiviso fin dai vent’anni, nonché quella capacità semiseria di sapersi prendere con ironia perché ci si conosce fino al midollo, grazie alla passione per l’arrampicata e la montagna che hanno cementificato la fiducia che ognuno ripone nell’altro. L’amicizia in montagna è particolare: è un legame forte in tutti i sensi, perché non si condivide solo il divertimento, ma una vita intera, aggrappata ad una cordata che unisce in fiducia e sicurezza, lasciando all’attacco della via le singole paure e debolezze.

Benché i nostri abitino ai quattro spigoli delle Pale di San Martino, ogni occasione è propizia per incontrarsi, come quella volta all’Hotel Regina che si sono presentati con il proiettore e la scatoletta grigia che conservava i due caricatori zeppi di foto delle loro salite sulla Pala di San Martino in invernale:

la via Settimo Bonvecchio (primi salitori: G. LossE. Bonvecchio-R. Destefani-V. Degasperi, 13-15 luglio 1969) e la nord della via Solleder-Kummel (E. Solleder-F. Kummel, 6 settembre 1926), due arrampicate considerate tra le più impegnative in tutte le guide alpinistiche, che diventano estreme in condizioni invernali.

L’appuntamento era per l’aperitivo delle sette: si sono presentati baldanzosi alle otto, con un sorriso che fa perdonare tutto. Scoprirò poi per caso che tappa obbligata, quando vengono a San Martino, è “Da Meto”, per un saluto a Lucia. Almeno dieci anni che non sentivo più i click… clack delle diapositive che scorrevano e proseguivano verso la luce ingrandendo l’immagine a dismisura sul muro, mai dritta, mai storta del tutto. Le immagini p iettate delle due salite erano ancora perfette, con quell’allure vintage che ci ha fatto andare indietro con i ricordi, quando ogni scatto era prezioso perché unico: “E quel maglione rosso?”, domando incuriosita: “E’ quello del “Gir”, il gruppo rocciatori”, mi rispondono in coro. I gir sono i ghiri, nel dialetto agordino. Nato in seno alla sezione del CAI Agordo, il Gir è formato da guide alpine, alpinisti e volontari del soccorso alpino, sulla scia di altre valli dolomitiche che avevano fondato le Aquile (San Martino di Castrozza e Primiero), gli Scoiattoli cortinesi, i Caprioli a San Vito di Cadore e poi più tardi i Ciamorces de Fascia, i camosci ladini di Fassa.

E il racconto prende vita, alimentandosi dei ricordi.

Chamonix

La loro voglia di arrampicare era assoluta. Franco e Gigi hanno cominciato all’inizio degli anni ’70 ad appassionarsi alle invernali: la prima via fu la Comici al Piccolo Falzarego, poi il Tridente nel gruppo della Moiazza e la Bonato, un quinto grado, superata senza imbracatura e Franco non aveva neppure il caschetto! “Bei ani”, commentano. Franco si era comperato la corda con i soldi guadagnati in malga, mentre Gigi “l’era ‘ndat de imprest” e non trovarono niente di meglio da fare che togliere ventidue chiodi dalla Bonato, “perché ci servivano per le altre arrampicate, dal momento che costavano cari ed eravamo squattrinati”. Lasciando quelli indispensabili alla salita, ovviamente. Per un’invernale, erano di fondamentale importanza degli scarponi tecnici che garantissero tenuta e fossero caldi e comodi. Tanto che Gigi, Franco, Giacomo e Walter decisero una spedizione di tre giorni in Val d’Aosta con due giorni a Chamonix e uno a Courmayeur per l’acquisto. Tre giorni interi per scegliere le calzature adatte? Non proprio: allora, i Galibier erano considerati insuperabili (oltre che rigidi…), e bastò un’ora per trovare quello che cercavano. Solo Walter preferì i Trapper, con una calda e folta pelle d’agnello, ma non fu una scelta saggia. Infatti, rimase un mese intero all’ospedale perché, a causa degli scarponi che stringevano, si era congelato il piede sinistro. Poi servivano caldi piumini, pantaloni e sacchi a pelo. I guanti no, si scalava a mani nude. Allora come oggi ogni occasione era buona per divertirsi, perciò la trasferta “materiali” divenne un viaggio-vacanza. In valle non c’erano ancora negozi così attrezzati come nelle due capitali alpine, perciò ne approfittarono per una tre giorni tra shopping, novità e genepì, che a Courmayeur “andava a gogo”, come ricordano i quattro davanti ad un buon calice di rosso trentino durante la cena.

La prima invernale sulla Bonvecchio alla Pala di San Martino

La prima invernale sulla Bonvecchio alla Pala di San Martino I primi a salire lungo il giallo pilastro strapiombante della parete ovest della Pala nell’estate del 1969 furono Giuseppe Loss, Emilio Bonvecchio, Romeo De Stefani e Vincenzo De Gasperi. Due anni dopo si cimenteranno Aldo Leviti e Alberto Dorigatti. I “nostri” saranno i terzi in ordine di tempo, ma i primi a salirvi in condizioni estreme, quelle invernali, con la roccia gelida spesso sotto il ghiaccio. Erano i giorni tra il 10 e il 12 marzo 1981. Due le cordate: Gigi De Nardin e Giacomo Corona (Sepp), davanti il primo giorno, e Franco De Nardin con Walter Levis che si alternarono il secondo. Sepp aveva ventiquattro anni, Gigi ventitre, Franco e Walter venti.

Cosa spinge ad affrontare un’impresa così ardua dal punto di vista alpinistico e che mette a dura prova soprattutto il fisico? Allora c’era la voglia e “l’ambizione di fare qualcosa di duro”, spiega Gigi a cui era venuta l’idea. “Era un orgoglio cimentarsi nelle invernali”. E fu Sepp a proporre la “Bonvecchio”. Non era di certo una passeggiata: i primi salitori avevano usato duecentotrenta chiodi, tra quelli normali e a pressione. Manolo e Paolo Loss l’hanno arrampicata in libera nel 1979, superando difficoltà massime di 8a. Se a questo si aggiungono le rigide condizioni invernali, il quadro della difficoltà è chiaro. Inoltre, “tachea a nevegar, che volea far imprèsa”.

E venne il giorno.

Ritrovo a San Martino, Rosetta in funivia, poi giù con gli sci. C’era poca neve nel vallone, molto dura, e le temperature erano rigidissime. Partire al freddo non è mai il massimo, allora si fece pagliuzza tra Gigi e Sepp. La sera, dopo un giorno di avvicinamento e arrampicata, si decise di bivaccare sulla piccola cengia, prima della zona facile, sul traverso alla base del dietro. In poche parole, sul vuoto. C’era pure chi riusciva a dormire bene, “tuta note” come Gigi, e chi no, come Franco. Trascorsero la seconda notte nella nicchia, vicino al pilastro, prima della placca gialla. Passarono la terza “abarbicadi come i corf”, perché lo spazio era risicato. Finalmente, arrivarono in cima: 700 metri di via, una via lunga e strapiombante con difficoltà fino al sesto/settimo grado in artificiale, e che soddisfazione! Che ricordi… la bottiglia stappata e bevuta assieme tornati a San Martino, i quattro giorni trascorsi dal Sepp a festeggiare alle Fontanelle… Gigi, sposo novello, dovette invece correre subito a casa.

La salita alla Pala di San Martino per la parete nord, la “mitica” via Solleder I primi a salirvi, lungo una difficile via attraverso profondi camini, furono i bavaresi Emil Solleder, Zacke per gli amici e una leggenda per tutti, con l’amico Franz Kummer il 6 settembre 1926. Il primato invernale spetta alle guide alpine Giacomo Corona, Ruggero Daniele, Walter Levis e Luigi De Nardin, il 22-23 febbraio 1983. È una parete storica, una delle mitiche Solleder, una vera e propria sfida per i nostri “fab four”: la Nord della Pala è infatti considerata la più ostica del gruppo, molto più della Nord del Velo e dell’Ortiga. I quattro decisero di dedicare l’impresa all’indimenticato amico Dante Taufer. Cosa ricordano i quattro Finanzieri dell’impresa? Il freddo. Il freddo cane: -26 gradi. “Fa catino, è un frigorifero, impensabile da fare in inverno, ci sono pareti Nord ben più morbide”.

E benché i materiali fossero considerati adatti per quelle temperature al limite – erano francesi, come dire “il non plus ultra”, Walter si troverà con il piede sinistro congelato e passerà un mese all’ospedale.

Ma l’arrivare in cima e vedere il sole ha ripagato di tutti gli sforzi: “Ti dava caldo anche se non lo era”. La gioia, la soddisfazione, l’orgoglio fanno cambiare prospettiva e anche il bivacco sembrava “una reggia”. La cena si avvia verso il caffè e lasciamo la sala con un’ultima considerazione: “Noi andavamo in montagna per passione; che poi fosse stato bello, brutto, freddo, ci si andava lo stesso. Ora è diverso, tra le nuove generazioni non è più di moda questo spirito. Noi non facevamo programmi, no femene, no telefoni che sona. Avevamo bisogno di sfogarci, non ci interessava documentare. Bastava una telefonata e si partiva”.

Le salite invernali alle cime più note fanno parte della storia dell’alpinismo delle Pale di San Martino. Ogni scalatore con il cuore di roccia si cimentava in quelle che erano vere e proprie mini spedizioni, che tra avvicinamento, attacco, salita e ritorno duravano dai due ai sette giorni. In una dimensione minore, si ricreava pure l’arrampicata in un ambiente estremo, simile a quello himalayano o andino, mete possibili solo a coloro che avevano il tempo e le finanze necessari.

Oggi quella “moda” è passata, l’alpinismo in invernale è un’attività diversa, grazie anche ai materiali sempre più specializzati ed evoluti tecnologicamente. Per trovare la novità, ci si cimenta su pareti ghiacciate: dry tooling e ice climbing (vedi l’articolo a firma di Renzo Corona) sono le nuove prospettive, che sanno ancora aprire interessanti orizzonti.

Aquile Magazine