Mirabilia

Sedici è il Numero Perfetto

Testo: Manuela Crepaz | Foto: Pierluigi Orler

È dal 2009 che l’associazione “Laboratorio Sagron Mis” ha ideato un modo tutto suo per mantenere viva una tradizione e coinvolgere la comunità locale attorno ad un comune e riconosciuto elemento identitario

Indovina indovinello, che cos’è? Una cariega del conža.

È Maurizio Salvadori che ci racconta che sedici era il numero dei pezzi che i seggiolai ambulanti incastravano perfettamente tra loro per dar vita ad una sedia impagliata. Sedici, il numero minimo sotto il quale la sedia non si regge in piedi. Maurizio è uno dei fondatori del Laboratorio Sagron Mis, l’Associazione di promozione sociale, nata nel 2009 per raccogliere le testimonianze e i ricordi, ma anche quanti più segni possibili ancora esistenti e rinvenibili della storia passata legata alla piccola realtà territoriale al confine tra Trentino e Veneto. E, per onorare una tradizione che ha caratterizzato la zona nei secoli scorsi, ecco che il Laboratorio ha avuto una bella idea: avviare un Corso per imparare a creare una sedia e impagliarla con le tecniche collaudate, ma quasi perse, degli emigranti stagionali che tra San Rocco, Da San Roch le nosèle le va de scroch e par i careghete l’è ore de far fagot, e San Bartolomeo, el Sant dei fagot, lasciavano Sagron Mis, Tiser, Gosaldo e i vicini paesi agordini per cercar fortuna prevalentemente nelle regioni dell’Italia settentrionale e in Francia. Partivano dopo il periodo dello sfalcio, obbligati a trovare un’occupazione invernale che permettesse la sopravvivenza loro e dei loro famigliari.

Moderni gaburi, aspiranti seggiolai, si ritrovano una sera a settimana e tra “spalar fora col manarin” e “far el giro del scalin co la paja”, imparano un’arte e la mettono da parte, che non si sa mai possa tornare utile come valida fonte di reddito, ma soprattutto infondono una spinta alla valorizzazione di un mestiere che si rinnova attraverso la partecipazioni a manifestazioni e dimostrazioni. Oriano Marcon, protagonista delle foto, è uno di loro. Figlio di caregheta sa costruire una sedia dalla A alla Z. Il corso è stato per lui il pretesto per riprendere in mano le nozioni imparate dal padre in gioventù. Aggiunge Maurizio: “L’aspetto interessante dell’iniziativa è che rappresenta un momento d’incontro che si alterna al ritrovo del circolo e del bar. Non è scontato in un paese come il nostro ritrovarsi al di là del circolo e del bar”.

Per impagliare la cariega, si usa la paja, un’erba palustre essiccata, del genere Carex, ne serve circa un chilo. Oggigiorno, la difficoltà maggiore, insospettabile, è proprio il reperimento dela paja. Un po’ per i vincoli ambientali a cui sono soggetti gli ambienti in cui cresce il prodotto, un po’ per perché venute meno le maestranze legate alla raccolta rigorosamente manuale. La carice migliore è quella che cresce lungo i fiumi di pianura, come Po e Mincio. Esisterebbero luoghi di approvvigionamento più vicini nel Feltrino, lungo il Piave, ma non hanno la stessa qualità, spiega Maurizio.

Reperire la materia prima, il legno, è più facile. Un tempo, i conža utilizzavano il legno di piante che trovavano nei luoghi in cui si fermavano, dal pioppo all’olmo, oppure castagno e noce. Ora, venuta meno l’attività ambulante, si impiegano essenze locali come il frassino, acero, faggio, ciliegio, noce, “ma non il salice, che è legno troppo delicato e fragile”.

Come in ogni lavoro artigianale che si rispetti, ci sono dei piccoli segreti: i scalin, gli elementi che “fanno il giro alla cariega” devono essere secchi, mentre le “gambe” devono essere ancora verdi, perché quando si seccano “le struca, le schiza”, e i pezzi si incastrano alla perfezione. Un tempo si faceva così, perché non c’erano collanti. “Oggi è chiaro che si usa alle volte anche un po’ di vinavil”, ammette Maurizio, ma i tempi sono cambiati: eh sì, i moderni caregheta e i gaburi non vanno più in giro per il mondo in cerca di acquirenti. Quelli che conoscono il valore del “fatto a mano” sanno come raggiungerli.

Quando nasce l’attività del conža?

Una data precisa non c’è, ma un censimento della Repubblica di Venezia di fine XVI riporta un “Bortolomio consa carieghe da Agordo”. Non viene detto se fosse un ambulante o avesse bottega, ma contestualizza l’arte del “far carieghe” nell’Agordino. È comunque solo sul finire dell’800 che inizia l’esodo stagionale dei conža e dei gaburi, inizialmente verso le campagne padane, poi via via sempre più lontano, in tutto il Settentrione e il centro Italia. Alcuni scelsero addirittura di valicare le Alpi, verso la Francia, la Svizzera e il Lussemburgo.

4 gambe:

due dietro più lunghe per lo schienale e due davanti più corte fino alla seduta; 2 sparangole su cui poggia la schiena; 6 scalin: due laterali per parte, uno frontale per appoggiare i piedi, e uno posteriore per rendere stabile il tutto; 4 scalin de la paia che fanno il giro della seduta impagliata. Il tutto, fatto a mano con elementi della natura: legno e paglia. El fer dela feraza (gli attrezzi), era leggero e ci stava tutto nella casèla, che veniva issata in spalla assieme alla paglia e alla càora, il fondamentale cavalletto in legno che sostituiva il banco da falegname. Ne esistevano anche di smontabili per il trasporto, ma non è stata una conquista recentissima, agli albori dell’attività ci si appoggiava semplicemente “su par en mur co na brega sul peto e col cortel a doi man i tirea fora i toc, roba scomoda”. La caora permette invece di rimanere seduti e “più che tu tira col cortel a doi man, pi tu fraca coi pie sulla leva che te blocca il pezzo”, diminuendo la fatica.

Una delle caratteristiche più originali e scaltre dei conža, è il loro scabelament, un gergo che si erano inventati per comunicare tra loro, sicuri di non essere compresi. Imperdibile, a tal proposito, il dizionarietto di Giocondo Dalle Feste e la tesi di laurea di Flavio Broch. Il declino dell’attività comincia con l’industrializzazione e il conseguente abbandono delle campagne, verso gli anni ’50 del Novecento.

Aquile Magazine