Viaggi nella Storia

Terra di conflitto, terra di pace

Testo: Adone Bettega | Foto: Kriegsarchiv Vienna

1914- 1915: LA GRANDE GUERRA NEL DISTRETTO DI PRIMIERO.

Chi oggi si incammina sui monti delle vallate di Primiero, ha frequentemente l’occasione d’incontrare le vestigia di un’imponente opera fortificatoria eseguita durante la Prima guerra mondiale dai soldati degli eserciti austro-ungarico ed italiano, impegnati in un’incredibile sfida per il possesso di un territorio montano fra i più belli della regione dolomitica. Uno scontro inverosimile e che sul confine meridionale dell’impero asburgico, per la prima volta nella storia militare, vide uomini in armi combattere su un terreno sino ad allora riservato agli alpinisti, ai cacciatori od ai pastori d’alta quota. Tutto questo mentre l’intera Europa sprofondava nell’abisso di quello che inizialmente sembrava un “fuoco di paglia” ma che in realtà si tramutò in un terrificante conflitto “di massa” con milioni di uomini massacrati nelle trincee o sui campi di battaglia. Di quello scontro ricorre dal 2014 al 2018 un lungo centenario, voluto non certamente per celebrare vittorie o conquiste, bensì per denunciare l’assurdità della guerra e ricordare le sofferenze e la morte di chi si sacrificò per la vana gloria di pochi o gli interessi economici di alcune nazioni. 

Primiero, nel 1914 estremo ed isolato lembo sud-orientale del Tirolo, come altre aree di confine, pagarono un pesante tributo alla cosiddetta Grande guerra. Principalmente con centinaia di giovani uomini arruolati nell’esercito asburgico ed inviati di tutta fretta sul fronte orientale, all’inizio del conflitto con la Russia, la Serbia e le forze dell’Intesa. Poi, con l’intervento dell’Italia e le operazioni militari svoltesi in loco nei quasi trenta mesi di permanenza dell’esercito sabaudo. Un lasso di tempo durante il quale alle privazioni riservate ai civili rimasti nei propri paesi o parzialmente e temporaneamente evacuati all’interno dell’impero o nelle regioni più remote della penisola, si aggiunsero i danni materiali prodotti dalle battaglie. 

Un confine difficile. Il turismo e l’alpinismo. 

Per meglio comprendere le tappe e gli eventi che segnarono indelebilmente i ricordi della popolazione di Primiero e ne trasformarono in campo di battaglia le amene vallate, è necessario tornare indietro nel tempo perlomeno alla fine della Terza guerra d’Indipendenza italiana. Conflagrazione che, come noto, nell’ottobre del 1866 decretò l’annessione del Veneto al regno d’Italia. Si trattò, per l’impero asburgico, di un’innegabile sconfitta che, come prima conseguenza, consentì al pur modesto esercito italiano di avvicinarsi pericolosamente al saliente tirolese. È solamente grazie all’abilità negoziatoria delle autorità di Vienna se le trattative si conclusero a favore del multietnico impero danubiano che riuscì ad imporre all’Italia un confine complessivamente sfavorevole ed equivalente, all’incirca, alla precedente demarcazione fra la Serenissima Repubblica di Venezia ed il Tirolo. Una frontiera molto complessa e caratterizzata da una vasta area montuosa e da poche e disagevoli vie di comunicazione. Il terreno ideale sul quale costruire un più efficiente apparato difensivo, alla luce dell’amara esperienza subita dall’esercito imperiale nel 1866 quando i garibaldini del generale Medici giunsero alle porte di Trento, dopo aver percorso quasi indisturbati l’indifesa Valsugana. Agli oggettivi vantaggi strategici della nuova frontiera si contrapposero tuttavia nuove difficoltà di ordine economico, soprattutto per quelle zone divenute “di confine” come il Primiero. Luogo fin dai tempi più remoti obbligato dalla morfologia del terreno a volgere lo sguardo prevalentemente verso sud e a rapportarsi con il Veneto e con la città di Feltre, attraverso l’unica via esistente: la gola dello Schener. Definito dal capitano Giuseppe Loss: “(…) uno dei più pittoreschi e duri passaggi delle Alpi”, questo problematico percorso fu, in seguito ai negoziati italo-austriaci del dopo guerra, sbarrato da una dogana collocata in località Monte Croce (Pontet). Evento che determinò la conseguente paralisi dell’industria e dei commerci valligiani. Nel tentativo di togliere, almeno parzialmente, l’alta valle del Cismon dal suo isolamento, nel 1875 l’amministrazione militare austriaca aprì al traffico la nuova rotabile che da Predazzo conduceva a Primiero e da qui al confine di stato. Fu tuttavia solamente nel 1882, in seguito alle insistenze della popolazione locale e di alcuni suoi uomini illustri, fra i quali l’ingegnere Luigi Negrelli, che vide la luce dopo tre anni di lavoro il definitivo e nuovo collegamento con il feltrino, come già detto, area di storico riferimento per Primiero.

La realizzazione della strada del Rolle ed il successivo prolungamento oltre Pontet sino a Fonzaso, significò la fine dell’isolamento e l’inizio dello sviluppo commerciale, turistico ed escursionistico della zona.
In tale contesto ebbe particolare espansione l’industria alberghiera che soprattutto a San Martino di Castrozza trovò il suo più importante punto di riferimento. Sede di un ospizio che alla metà dell’800 fungeva da luogo di accoglienza per pellegrini, viandanti e pionieri dell’alpinismo attratti dalle ardite ed inesplorate guglie dolomitiche delle Pale, l’Alpe di Castrozza, grazie all’ingegno e l’inventiva di alcuni imprenditori locali e stranieri divenne in pochi decenni uno dei più rinomati centri del turismo internazionale. Beneficiando di un periodo di pace e relativo benessere legato ad importanti scoperte scientifiche e tecnologiche, l’economia legata al turismo all’inizio del 1900 ebbe forte sviluppo in tutta l’area dolomitica. Furono realizzate numerose vie di collegamento fra i vari centri urbani e l’automobile iniziò a fare la propria comparsa fra i passi d’alta quota. Nel settembre del 1908 fu inaugurata la strada del Passo Brocon che permette tutt’oggi il collegamento fra il Vanoi ed il Tesino e all’epoca consentiva di raggiungere Trento entro i confini dell’impero. L’anno successivo con un tour automobilistico da Vienna e Fiera di Primiero questa arteria entrò di fatto a far parte della rete stradale tirolese. Si completava in questo modo il progetto di collegamento verso l’esterno dell’intero Distretto di Primiero. Le ragioni di ordine economico e commerciale sembravano finalmente avere avuto il sopravvento sulle logiche militari. La realtà era tuttavia molto diversa.

I piani di difesa dello Stato Maggiore
austro-ungarico. 
La fortificazione del Lagorai.

La Triplice alleanza fu firmata a Vienna il 20 maggio 1882 dal regno d’Italia e dagli imperi di Germania ed Austria-Ungheria. Più volte riconfermato negli anni successivi sino alla vigilia della Grande guerra, questo patto militare difensivo, desiderato essenzialmente dall’Italia che ambiva di appartenere all’elite delle potenze europee dopo un periodo di forzato isolamento, sembrò garantire un intervallo duraturo di pace. La stessa frontiera italo-austriaca avrebbe potuto perdere gran parte della sua importanza, se la diffidenza politico-militare fra i due stati non si fosse mantenuta a livelli sempre molto elevati. Tant’è che la pianificazione e la realizzazione di un imponente complesso fortificatorio da parte delle autorità militari di entrambi, iniziata nei decenni successivi al 1866, non ebbe mai fine e raggiunse il suo culmine all’inizio del Novecento. Le principali preoccupazioni dello Stato Maggiore asburgico erano concentrate soprattutto nei settori più sensibili (Trento, Valsugana, Rovereto e Giudicarie), dove sarebbe stata possibile una penetrazione rilevante di unità italiane con conseguenze particolarmente gravi per il controllo del Trentino.

In questo contesto le peculiarità del confine compreso fra la Valsugana e la Marmolada non furono mai di particolare preoccupazione per il Comando supremo imperiale. Tale parere produsse un susseguirsi di progetti sostanzialmente inutili e completati parzialmente solamente alla soglia del ‘900. In un primo piano di difesa del Tirolo emanato fra il 1867 ed il 1871 dal FML Franz Kuhn von Kuhnenfeld (comandante della difesa territoriale), fu ritenuto improbabile l’irruzione di forze significative attraverso il Trentino orientale, caratterizzato da imponenti gruppi montuosi e privo di vie di comunicazione. Per la sua difesa sarebbero state sufficienti alcune unità da montagna (Landesschützen), della Milizia territoriale e pochi reparti di Landstürm. Forze da disporre su due linee di resistenza, la prima delle quali pensata per difendere Primiero, Fiemme e Fassa e saldata ad alcune opere campali da realizzarsi al Passo di San Pellegrino, Juribrutto, Monte Castellazzo, passi Cereda e Finestra e presso Imèr. La seconda molto più arretrata e volta a proteggere la linea ferroviaria del Brennero. Non se ne fece nulla e nel 1881 un nuovo progetto a cura del comandante del Genio di Innsbruck, colonnello Julius Vogl concepì l’idea di realizzare alcune opere permanenti presso Moena ed in Val Cismon. In particolare era stata ipotizzata la costruzione di un’opera fortificata presso San Silvestro, laddove la valle dello Schener disegna una delle sue tante strozzature.

Il forte sviluppo turistico con il conseguente incremento delle vie di comunicazione, obbligò tuttavia lo Stato Maggiore imperial-regio a rivedere ancora una volta le proprie strategie e a decidere definitivamente l’arretramento della linea difensiva, con il doloroso ma necessario abbandono del Primiero, del Vanoi e di gran parte della Valsugana. Tale risoluzione spinse il colonnello Vogl a proporre un più modesto progetto in grado perlomeno di proteggere le valli di Fiemme e di Fassa con la posa in opera di una barriera in grado di fermare o rallentare eventuali infiltrazioni avversarie attraverso i passi Rolle, Valles e San Pellegrino. Ciò si concretizzò con l’esecuzione di due opere corazzate in Val Travignolo e di una terza in Valle di San Pellegrino. Nasceva così lo Sbarramento di Paneveggio e del forte di Someda (presso Moena) ed iniziava la lenta ma progressiva fortificazione di quelle che all’epoca lo S.M. imperiale chiamava le Fassaner Alpen, ovvero la catena del Lagorai. Malgrado le persistenti difficoltà finanziarie e le sistematiche revisioni progettuali, l’impianto difensivo si materializzò in una decina d’anni.

Sul colle del Dossaccio, contrafforte roccioso che domina l’alta Val Travignolo, fra il 1886 ed il 1896 fu eretto in conci di porfido e calcestruzzo l’imponente Werk Dossaccio. Fra il 1895 ed il 1896 vide la luce, a est di Bellamonte, lo sbarramento stradale Al Buso, opera collocata a guardia della rotabile che dal Passo Rolle perveniva a Predazzo. Più a nord, in Valle di San Pellegrino, fu invece eretto nel 1898 in conci di granito il forte stradale di Someda (Werk Someda). In un quadro di generale riammodernamento del parco di artiglieria, nel 1906 i vecchi obici da 15 cm furono rimpiazzati dai più evoluti pezzi da 10 cm M05 ed in seguito anche tutte le mitragliatrici M93 furono sostituite da armi più moderne.

Con l’avvento del generale Conrad a Comandante di S.M. dell’esercito imperiale e regio (1906), l’attenzione del governo di Vienna nei confronti della frontiera tirolese mutò completamente e nel giro di pochi anni, complice una rapidissima evoluzione tecnologica, le imponenti “sentinelle” edificate alla fine del XIX secolo a tutela delle vallate dell’Avisio, orgoglio e vanto dell’ingegneria militare austro-ungarica, persero la loro importanza. Alle obsolete fortezze si preferì un fitto e ramificato sistema di opere campali costruite sulla dorsale del Lagorai e fra le foreste e gli ampi alpeggi dei monti dominanti la Val Travignolo e la Valle di San Pellegrino. La stessa artiglieria collocata presso i forti fu trasferita in gallerie scavate nella roccia con un palese vantaggio strategico data la loro difficile identificazione. La decisione da parte del C.S. imperiale di dare esecuzione al nuovo piano di difesa territoriale fu tuttavia presa solamente nell’autunno del 1914, quando i dubbi politici e militari nei confronti dell’alleata meridionale iniziarono ad acutizzarsi. 

La scelta strategica di allestire la linea difensiva oltre il Passo Rolle e sul Lagorai, non modificò comunque di una virgola il livello di sorveglianza della frontiera austro-italiana nel Distretto di Primiero che addirittura dal 1906 divenne pressoché costante con l’avvicinamento al confine di due battaglioni del K.K. III Landesschützenregiment Innichen. Il II Feldbatailon acquartierato a Predazzo, il I Feldbatailon stanziato a Primiero e alloggiato all’albergo Al Ponte. La permanenza di tali reparti è testimoniata da una consistente documentazione depositata presso gli archivi comunali e dalla quale si evince la particolare attenzione dei vari comandi all’organizzazione delle esercitazioni militari, eseguite in montagna e con il frequente intervento dell’artiglieria dei forti Dossaccio e al Buso.

Ne elenchiamo le più significative. Il 26 luglio 1906 i cannoni dei forti spararono in direzione di Juribello, Malga Bocche e Carigole, ripetendo il loro tiro nel novembre successivo. Il 6 giugno 1908 toccò invece alla 7^ compagnia del I Feldbatailon, di stanza a Canal San Bovo, eseguire un tiro al bersaglio dalla chiesetta di San Silvestro verso il Monte Vederne dove furono collocati dei bersagli. Nell’aprile dell’anno successivo toccherà alla Val Uneda essere teatro di più esercitazioni a fuoco dei bersaglieri territoriali. Nel 1911 altre importanti manovre avvennero a Forcella Calaita, su Cima Scanaiol, sull’Alpe Pisorno, a Passo Rolle e sul Castellazzo. Durante il biennio 1913-1914 l’attenzione dei militari si sposterà invece a nord-ovest del Rolle dove più volte l’intervento delle artiglierie accompagnerà gli assalti simulati delle unità da montagna in Val Venegia, sulle Pale e sul Castellazzo. Prove di una guerra ormai annunciata e che scoppierà il 28 luglio 1914 con il coinvolgimento delle unità predette e di centinaia di giovani soldati di Primiero inviati a versare il loro sangue non sui monti di casa bensì in Galizia o sui Carpazi.

L’attentato di Sarajevo e l’inizio della Prima Guerra Mondiale.

L’annuncio dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico e della moglie Sofia, avvenuto a Sarajevo per mano di alcuni nazionalisti serbi, fu letto dai sacerdoti nelle chiese del Tirolo il 29 giugno 1914. Ritenuto l’evento scatenante la Prima guerra mondiale è in realtà ormai certo che le cause del conflitto vanno ricercate altrove e precisamente negli intrecci della politica economica ed espansionistica esercitata negli anni precedenti dalle potenze europee, spinte da interessi di parte a coalizzarsi in multiformi alleanze. Fra le ragioni più accreditate sicuramente le mire imperialistiche dei singoli stati prosperate in un clima di esacerbato nazionalismo e di progressiva militarizzazione favorita dal progresso tecnologico e scientifico d’inizio Novecento. Nei giorni successivi al fatto di Sarajevo è altresì comprovato che le autorità di Vienna non si adoperarono in modo tale da scongiurare l’eventualità di un’escalation bellica, tant’è che il Consiglio dei ministri convinse l’imperatore Francesco Giuseppe a firmare il noto “Ultimatum”, consegnato a Belgrado il 23 luglio 1914. Documento respinto dalla Serbia, rassicurata dall’amicizia che la legava all’impero russo.

Era la guerra, dichiarata ufficialmente dall’Austria-Ungheria il 28 luglio 1914. Decisione che superò in un batter d’occhio i risicati margini diplomatici rimasti alla soluzione della crisi. Nel giro di una settimana Russia, Francia e Gran Bretagna, unite nell’”Intesa”, si ritrovarono così in guerra con l’impero austro-ungarico e l’impero tedesco, quest’ultimi schierati dal 1882 nella “Triplice Alleanza”. Patto militare che, come noto, comprendeva anche il regno d’Italia che tuttavia preferì in quel frangente dichiararsi neutrale. 

Successivamente al decreto di mobilitazione generale, firmato dall’imperatore Francesco Giuseppe, milioni di uomini del multinazionale impero abilitati al servizio militare e compresi inizialmente fra i 21 e 42 anni dovettero presentarsi ai distretti di reclutamento da dove furono indirizzati alle rispettive unità di appartenenza. Nonostante il proselitismo militarista e l’ambizione per una vittoria rapida ostentata dalle autorità, la campagna dell’esercito asburgico guidato dal comandante di S.M. Conrad von Hötzendorf, si trasformò ben presto in un fiasco totale (quattro armate contro la Russia e due armate contro i serbi). Sconfitte e respinte sul fronte balcanico nell’estate del 1914 e addirittura soverchiate dalle armate zariste ad oriente, dove furono costrette ad abbandonare la città di Leopoli e la pianura galiziana, le truppe austroungariche persero nel primo anno di guerra la metà dei propri effettivi, decimati dalle battaglie, dal colera e dal tifo. Nell’autunno del 1914 le armate russe erano giunte alle porte di Cracovia ed avevano ormai in pugno la piazzaforte di Przemysl, abbandonata a sé stessa e difesa da cento mila soldati costretti alla fame e privi di ogni rifornimento. Attestatesi sui monti Carpazi, ormai ammantati di neve, le unità asburgiche riuscirono tuttavia a reggere l’urto avversario e addirittura durante l’inverno a scatenare un’assurda ed inutile offensiva d’alta quota nel tentativo di riprendersi parte del terreno perduto. Ma ormai l’esercito imperialregio era allo stremo e solamente l’intervento dell’alleato germanico riuscì a frenare le truppe russe, ormai in vista della pianura ungherese. Nel maggio del 1915, ripresa in mano l’iniziativa, gli imperi centrali lanciarono un’imponente offensiva sul fronte galiziano. L’azione, ben concepita e magistralmente condotta dall’abile generale prussiano Mackensen (8 divisioni tedesche e 3 austriache), ebbe ragione della resistenza avversaria presso Gorlice e Tarnow, tanto cha ai primi di giugno gli austro-tedeschi raggiunsero il fiume San e riconquistarono Przemysl, arresasi ai russi nel marzo precedente. Nel contempo, la capitale serba caduta una prima volta nel settembre del 1914, capitolò definitivamente nell’autunno del 1915 con le resa della Serbia. Pesantemente sconfitte le armate del generale Brussilov furono quindi costrette a ripiegare su posizioni difensive fra il Mar Baltico ed il confine rumeno. Il tracollo di Gorlice e Tarnow costrinse per mesi l’esercito zarista all’immobilità e solamente nel giugno del 1916 esso riuscì a risollevarsi tentando invano la riconquista della Galizia. Ultimo colpo di coda di un impero ormai al tracollo e stroncato dalla rivoluzione bolscevica nel 1917.

Il ruolo dei soldati trentini e di Primiero sul sanguinosissimo fronte russo-balcanico non fu irrilevante. Le cifre sono molto significative e parlano da sole. Su una popolazione di 380 mila persone, circa 60.000 uomini furono costretti ad abbandonare le loro famiglie e le loro attività per raggiungere in prevalenza i quattro reggimenti dei Tiroler Kaiserjäger (cacciatori imperiali), i due reggimenti di Tiroler Landsturm (milizia territoriale) ed il 14° reggimento di artiglieria da montagna. Contingenti che con altre formazioni dell’Austria superiore e del salisburghese formarono il XIV corpo d’armata. In seguito alla dichiarazione di neutralità italiana il Comando Supremo imperiale decise anche l’utilizzo dei tre reggimenti Landesschützen, le unità territoriali da montagna stanziate in Tirolo, anch’esse in parte composte da militari di lingua italiana. Lunghe tradotte stracariche di uomini, salutate dalle musiche patriottiche eseguite dalle bande militari, partirono dalla stazione di Trento già ai primi di agosto, verso mete ai più ignote. Coinvolti fin da subito nelle più cruente battaglie, i soldati del Tirolo italiano vissero la tragedia delle disastrose ritirate attraverso le acquitrinose pianure galiziane e la cruenta lotta con i cosacchi sui “Monti Scarpazi”, dove, ricorda la famosa canzone: “O mio sposo eri andato soldato per difender l’imperator, ma la morte quassù hai trovato e mai più potrai ritornar.” La lontananza dagli affetti, la fame, il freddo, il durissimo confronto con l’avversario, l’inefficienza dell’apparato militare asburgico e l’impressione di morire inutilmente, resero l’esperienza di guerra di questi giovani uomini terrificante. La memoria collettiva non ha rimosso questo periodo storico, nonostante i tentativi posti in essere in Italia nel primo e secondo dopo guerra di nascondere la verità. Le prove sono nel corso degli ultimi anni riemerse dall’oblio ed oggi ci è possibile ripercorrere nelle letture dei tanti diari e della documentazione disponibile, le tappe più significative e personali di molti “soldati dell’imperatore”.

Nel primo anno di guerra le perdite per le unità tirolesi furono pesantissime. Un alto tributo in vite umane fu pagato dai Cacciatori imperiali che persero mediamente i due terzi degli effettivi. Analogamente le truppe da montagna sacrificarono più 15.000 soldati. Gli anni seguenti portarono altre sciagure ed ai caduti, sempre consistenti, s’aggiunsero migliaia di prigionieri che finirono nelle più profonde regioni dell’impero zarista o sparpagliati dall’Asia all’America. Al termine del conflitto le cifre furono impressionanti e da sole esprimono la tragedia alla quale il Tirolo di lingua italiana aveva partecipato. Dei 60.000 arruolati nell’esercito asburgico, più di 11.000 caddero sui vari campi di battaglia, circa 20.000 finirono prigionieri e altri 14.000 rimasero feriti. Il numero degli arruolati nell’esercito di Francesco Giuseppe ed appartenenti al Distretto di Primiero non è noto con esattezza, al contrario la cifra dei caduti, scaturita dopo approfondite ricerche, è più esatta e corrisponde a 388 uomini.

24 maggio 1915: l’intervento dell’Italia. San Martino di Castrozza in cenere.

Dopo mesi di trattative con le forze dell’Intesa, alle ore 24 del 23 maggio 1915 il regno d’Italia entrò in guerra a fianco di Russia, Gran Bretagna e Francia. La decisone italiana non colse di sorpresa l’efficiente servizio informazioni di Vienna ma il comando supremo imperiale si trovò a dover far fronte alla una nuova emergenza con il grosso dell’esercito impegnato sullo scacchiere russo-balcanico. La situazione militare alla frontiera meridionale era tutt’altro che tranquillizzante. Il generale Conrad von Hötzendorf, comandante di S.M., si trovò a dover far fronte alla minaccia italiana con forze molto limitate. Il Tirolo meridionale, posto alle dipendenze del generale Rohr, fu suddiviso in cinque settori (Rayon). Il IV Rayon includeva le valli di Fiemme e Fassa, una vasta area di montagna da tenere d’occhio con la sola 55ª brigata da montagna. Unità composta da 4000 uomini circa, fra i quali soldati della riserva ungherese, reparti territoriali e gli Standschützen delle compagnie Cavalese, Predazzo, Primiero e Moena, più qualche vecchio cannone e l’artiglieria estratta dalle fortezze dello sbarramento di Paneveggio. In suo soccorso ai primi di giugno del 1915 giunsero altri 3000 uomini della 179ª brigata di fanteria (compagnie Standschützen di lingua tedesca, territoriali e artiglieria ormai datata) e qualche compagnia di Jäger dell’Alpenkorps germanico. Le circostanze imposero quindi di dover agire esclusivamente sulla difensiva, attuando quelle essenziali contromisure già descritte precedentemente. Fra queste l’abbandono del Primiero e del Vanoi con l’occupazione di una linea difensiva ancorata alla lunga catena porfirica del Lagorai. 

L’Italia entrava in guerra con trentacinque divisioni, cinque delle quali costituivano la 1ª armata, schierata lungo il cosiddetto saliente trentino, tra il Passo dello Stelvio e le Pale di San Martino. Per il comandante di S.M. dell’esercito italiano, generale Luigi Cadorna, questa unità avrebbe dovuto osservare un contegno esclusivamente difensivo, tanto da proteggere alle spalle le altre armate incaricate di operare in direzione di Trieste e Lubiana, ritenuti gli obiettivi principali. Il cosiddetto “settore Brenta-Cismon” fu invece affidato alla 15ª divisione di fanteria (20.000 uomini ed un discreto parco d’artiglieria). Alla brigata Abruzzi, al 2° reggimento bersaglieri e a due battaglioni di alpini (Feltre e Val Cismon) fu dato l’ordine di entrare con circospezione in Primiero e Vanoi.

Nella notte fra il 22 ed il 23 maggio 1915 gli abitanti di Imèr e Mezzano udirono alcune forti esplosioni. Le unità di presidio avevano fatto saltare i Ponti di San Silvestro, delle Vederne e della Val Noana. Era l’inequivocabile segnale che le operazioni militari avevano avuto inizio. Successivamente esplosero i ponti di Transacqua, Tonadico, Siror ed il panificio di Fiera. I reparti asburgici presenti in quei giorni nel Distretto erano rappresentati da pochi gendarmi, qualche plotone di guardie confinarie e dai Standschützen della compagnia Primiero, composta da 56 soldati al comando del capitano Leone Dallago. Un esiguo numero di uomini che terminate le loro azioni di disturbo ripiegarono rapidamente a Predazzo. Non ci fu tempo nemmeno per organizzare un piano di evacuazione dei civili che rimasero nei propri paesi ad attendere l’arrivo degli italiani.

L’azione distruttiva delle retroguardie imperiali ebbe la sua tragica conclusione con l’incendio di San Martino di Castrozza, avvenuto dal 24 al 26 maggio 1915 ad opera di un manipolo di Standschützen del battaglione Cavalese al comando del sergente della gendarmeria Carlo Keller. Tutti gli alberghi furono distrutti e solamente l’antica chiesa ed il campanile romanico vennero risparmiati. Stessa sorte toccò a Passo Rolle e a Paneveggio Alle ore 4,15 del 24 maggio 1915 i reparti italiani iniziarono la loro prudente avanzata oltre confine inerpicandosi faticosamente su passi e catene montuose, secondo una logica che riteneva fondamentale il controllo delle alture. In pochi giorni alpini e bersaglieri si attestarono sulla linea Totoga- Vederna- passo Alvis- Sasso Padella- passo Cereda- Dalaibol, ma non proseguirono oltre.

Furono giorni d’angoscia per la popolazione locale che non comprendeva le intenzioni dell’invasore. Don Cipriani, cappellano di Mezzano, ricorda l’atteggiamento incerto dei soldati italiani che in quegli ultimi giorni di maggio apparivano e scomparivano nei villaggi come dei fantasmi. Soltanto il 5 giugno il comando della 15ª divisione poté comunicare di aver raggiunto le posizioni avanzate di Cima d’Asta, Pralongo, Cima Valsorda, Col Santo e Cimerlo. Operazione completata con la conquista indolore del gruppo delle Pale di San Martino, avvenuta da parte degli alpini del Val Cordevole stanziati in Val Biois alle dipendenze della 4ª armata. L’occupazione militare italiana venne formalizzata con la nomina del Commissario civile, incaricato di rappresentare il re d’Italia nelle “terre redente”. Solitari ed abbandonati fra le rispettive linee, nella cosiddetta terra di nessuno, rimasero solamente le macerie ancora fumanti di San Martino ed il paesino di Caoria. Quest’ultimo in parte ancora abitato e soggetto alle frequenti visite delle pattuglie austriache e germaniche che, il 20 luglio 1915, iniziarono una decisa quanto inattesa azione di rastrellamento dei valligiani trasferitisi nei masi di montagna per la fienagione. Duecento di loro vennero obbligati a trasferirsi in Val di Fiemme.

Era iniziata l’epopea dei civili evacuati per ragioni di guerra. Processo che proseguirà soprattutto in Vanoi nel 1916. 

Sulle posizioni raggiunte i genieri italiani avviarono un’imponente lavoro di fortificazione con la realizzazione di strade d’arroccamento, trincee e gallerie. Incominciò la fortificazione dei monti Vederna e Totoga. Nei centri abitati la presenza dei militari italiani si fece sempre più importante e la popolazione, dopo un primo momento di timore, cercò di abituarsi ai nuovi dominatori, con le dovute riserve e le inevitabili incomprensioni. L’arresto o l’allontanamento dei sospetti austriacanti da parte delle autorità italiane non favorirono di certo i rapporti reciproci. Don Cipriani annota moltissimi particolari con precisione e dai suoi racconti apprendiamo del continuo andirivieni di reparti. Inizialmente sospettosi gli ufficiali del regio esercito chiesero e s’informano del “nemico”. Alcuni di essi si lamentarono della fredda accoglienza da parte degli abitanti e delle persone importanti che al contrario avrebbero dovuto essere entusiasti della liberazione dall’oppressore. Si ordinò la distruzione delle insegne asburgiche e un po’ ovunque furono esposte bandiere sabaude ed iniziarono le letture, nelle chiese e sulle piazze, di proclami patriottici ed inneggianti all’Italia. Non mancarono le minacce a chiunque avesse ostacolato le operazioni militari. Nelle scuole i programmi didattici furono naturalmente modificati ed libri di testo, pur scritti in italiano, sostituiti. In tutti i paesi venne imposto l’oscuramento dei già precari impianti d’illuminazione pubblica e imposto il silenzio alle campane delle chiese che con il loro suono avrebbero potuto trasmettere informazioni al nemico. 

A Primiero la guerra divenne subito di posizione e tutto il 1915 trascorse con i due eserciti occupati più a difendersi che ad attaccare. Distanti fra loro le rispettive linee favorirono una vivace attività di pattuglie che quotidianamente erano incaricate di esplorare il territorio spingendosi il più vicino possibile all’avversario. Esplorazioni che occasionalmente evolvevano in scaramucce, più o meno intense. Più o meno enfatizzate dalla propaganda. Protagonista e narratore di questa particolare fase bellica sui monti di Primiero e di Fiemme fu un ormai non più giovane uomo di Predazzo: Simone Morandini “Castèlo”. Come ogni suddito dell’impero egli sapeva scrivere e le vicende che lo coinvolsero, dopo la dichiarazione di guerra italiana, diverranno oggetto di un interessante Feldtagebuch (diario) pubblicato recentemente a cura della Società Storica per la Guerra Bianca. Morandini, inquadrato nella compagnia Standschützen del paese, visse in prima persona gli eventi che caratterizzarono quel primo anno di guerra e le frequenti ed angoscianti azioni di pattuglia. Faticosamente su e giù per i boschi e le valli dell’alto Cismon o fra i resti anneriti degli hotel di San Martino alla ricerca degli italiani, per sparare contro di loro o semplicemente per osservarne i movimenti. Di giorno, di notte, nella nebbia, sotto la pioggia o nella neve ancora compatta sui versanti nascosti al sole. Momenti di paura alternati ad occasioni di svago od in compagnia di commilitoni non sempre “attendibili” sono il tema ricorrente dell’esperienza di guerra di Morandini. Sorte condivisa con tutti i soldati, austro-ungarici ed italiani, coinvolti in quelle prime operazioni a nord di Siror.

Partito dalla sua casa già il 18 maggio 1915, armato di tutto punto, egli collaborò alla fortificazione delle Carigole (a nord del Dossaccio) e presidiò con la sua unità l’alta Val Travignolo sino all’inizio del conflitto. Dopo aver assistito all’incendio di Paneveggio fu trasferito al Passo Colbricon e da qui iniziò la sua intensa attività di esploratore. Timorosi e poco avvezzi alle operazioni di guerra, Morandini e compagni furono protagonisti di fatiche indicibili e, pungolati da ricorrenti allarmi sulla presenza del nemico, obbligati a spostarsi da un versante all’altro della vallata. Una guerra avventurosa fatta di brevi incontri con l’avversario, spesso risoltisi senza sparare un colpo e con delle fughe generalizzate. Oppure con una sparatoria, quasi a bruciapelo, risoltosi tuttavia con un nulla di fatto per l’evidente emozione al momento di premere il grilletto. Una lotta, quella descritta da Morandini, con un volto ancora umano e che consentì agli Standschützen di Predazzo anche momenti di svago fra i ruderi di San Martino alla ricerca del buon vino, rimasto nelle cantine degli alberghi ormai inceneriti: “(…) volemmo sostare alcuni minuti in San Martino e parte di noi scioltisi dalla pattuglia si diressero verso l’hotel San Martino ove in una delle sue cantine sebbene in miserando stato, stavasi sotterrato dalle macerie, delle grosse botti di buon vino, epperciò v’accorremmo noi pure per attingere a quella fonte di Bacco onde riaversi un poco dalle subite fatiche. Ci umidimmo per bene il palato, poscia preso chi tre chi quattro bottiglie le empimmo per regalarne anche ai nostri compagni. Ben diversamente la documentazione ufficiale ci riporta resoconti diversi, anche se comunque in un contesto di generale irrilevanza dal punto di vista bellico. In quel primo anno di guerra sono citati degli scontri fra italiani e austroungarici il 10 ed il 26 giugno poco a sud di San Martino. Il quotidiano di Innsbruck Der Tiroler (14 settembre 1915) dava particolare enfasi alla notizia che: “(…) presso San Martino di Castrozza si sono verificati ieri due scontri di pattuglie, conclusisi con successo per noi. A sud-ovest del centro paese è completamente fallito un importante piano d’attacco di pattuglie italiane contro il muro delle Fassaner Alpen.” Ben più cruenti furono alcuni scontri avvenuti in Vanoi nel mese di giugno.

Per tutto il resto del 1915 la situazione non mutò ed il primo inverno di guerra trovò austro-ungarici ed italiani ben arroccati sulle proprie posizioni. Il 1916 sarebbe stato ben diverso.

Aquile Magazine